domenica 5 gennaio 2025

I MIEI LIBRI - Aspettando il Cielo - Quadrilogia Faentina, Vol. 1 (romanzo; 2014)

ASPETTANDO IL CIELO - romanzo di Gianluigi Valgimigli (Quadrilogia Faentina - Vol. 1); originariamente pubblicato nel 2014 da Gingko Edizioni (Molinella, BO)



PREFAZIONE

Nella provincia di Ravenna la città di Faenza è un cen- tro, affacciato tra la via Emilia e il West (Guccini docet), rinomato da tempo per l’agricoltura e le industrie,

principalmente per la ceramica, la cui posizione geografica è, dai tempi più remoti, favorevole agli scambi commerciali e culturali. A est di Faenza la piatta pianura agricola giunge fino al mare Adriatico.

Il West è un territorio vasto che prende l’arco appenninico fra il Lamone e il Senio, in cui troviamo diversi paesi sparsi nel dorso di colline morbide, dove le coltivazioni giungono a culminare nei brulli calanchi delle cave del gesso nei dintorni, fra Brisighella e Riolo, entrambe località note per le famose acque termali, che consentono terapie idroponiche a cittadini giovani e anziani, che necessitano di tali cure; oltre, i pae- saggi collinari diventano più aspri e selvaggi verso Casola Valsenio, Fognano e Zattaglia, e nella zona interna verso Borgo Tossignano e Fontanelice, nell’imolese. A sud-est di Faenza, dal Lamone verso Modigliana, il West continua fra campi che si alternano a zone boschive di pini, cipressi, abeti, prugnoli e sorbi, dove il dolce paesaggio rurale diviene a tratti misterioso, fin’oltre Oriolo dei Fichi, nei primi contrafforti appenninici dove si affaccia l’ulivo e dove, nel 1986, fu ri- trovato il cranio completo di un mammuth, l’elefante prei- storico, che viveva in queste lande nella lontana era Mesozoica.

In mezzo a questa natura fluente sorge Borgo Tuliero, dove Gianluigi Valgimigli cresce a contatto diretto con la

campagna, nelle narici gli odori della terra e delle piante di rovo, ginepro e ginestra. Qui, col suo fucile e i cani, gira, va a caccia, scruta oltre l’orizzonte la montagna o il mare o anche solo semplicemente la vita che passa attraverso i suoi occhi.

È in questi luoghi, nel “Rifugio dell’Anima”, la tana di Pietro, Pelle di Lupo, nella Valle della Balda, che egli coltiva la sua vena artistica, che gli cresce nell’intimo delle sue notti di veglia, maturando nelle note arrabbiate di chitarra che compongono le canzoni dissacratorie che egli scrive e canta con rabbia contro una società in cui non trova la propria col- locazione ideale. Un malessere che si traduce nel rock blues jazzato, che Gianluigi interpreta con la vigoria di un mene- strello dell’epoca moderna, che interpreta la dura realtà quo- tidiana nel gergo popolare ben comprensibile a chi sa intendere.

Questa rabbia ha una storia lontana di sofferenza inte- riore, di inquietudine e insoddisfazione, che sfocia nel ri- gurgito urbano, in cui si trova quando egli esce dal ventre umido della terra ed affonda le mani nell’addome grasso della città, Faenza. Le distanze non esistono più, stracciate da comunicazioni che sulle vie di internet bruciano tappe rite- nute invalicabili fino a pochi decenni fa. Il mondo globaliz- zato accorcia gli spazi, i luoghi e le culture, da cui Valgimigli ha attinto il flusso letterario, musicale e artistico tipico della propria generazione.

Egli alterna una scrittura aspra, quasi cattiva, a momenti estetici di pura poesia, esprimendo passioni ed emozioni che coinvolgono il lettore fino alla fine del romanzo.

Aspettando il cielo è un romanzo che riguarda una gio- ventù arrabbiata che in questa società non trova sbocco alle proprie legittime aspettative, ad una collocazione che resta qualcosa di confuso e consolida inquietudini e delusioni. La sua ispirazione trae spunto dal contrasto fra l’ambiente rurale

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e quello urbano della piccola grande città che è Faenza, dove i suoi personaggi prendono vita, fra le pareti domestiche e le fughe da una dimensione all’altra, dalla periferia industriale alla campagna, dove, come forma di ribellione al proprio ma- lessere quotidiano, si svolgono i “fatti” che hanno il sapore di un sesso usato come provocazione, arma contro il sistema, un erotismo brutale smembrato di ogni sentimento, di atti di vandalismo come sberleffo contro l’apatia dell’apparato bor- ghese, della società puritana, del perbenismo bigotto. Un’ag- gressività contro la routine di un lavoro monotono, sempre uguale, contro case, abitazioni domestiche, in cui si vive una vita piatta, fatta di stimoli scarsi, contro i simboli di un capi- talismo che opprime le persone relegando chi non accetta di rendersi schiavo ad un destino ingrato, ad una sfiducia cor- rosiva, ad una povertà affogata nell’alcol, nella psicosi e nel suicidio.

Una madre si ubriaca, tenta di togliersi la vita e viene sal- vata dal figlio in un rincorrersi di situazioni deprimenti, squallide e pur sempre violente.

La miseria umana passa anche dalla disperazione della povertà economica, dalla disoccupazione, dal grande vuoto che ingloba il mondo.

Nel frattempo si consuma con superficialità un amore che non è altro che passione, attrazione fisica, che nell’immatu- rità della coppia porta alla nascita di un bambino, anima in- nocente in mezzo alla tempesta. Quindi l’infedeltà, il tradimento, che accompagna la bruttura, la reazione di scon- forto e di abbandono.

La storia di un amore torbido, gravido di un erotismo ag- gressivo rivela un malessere di fondo che origina stupore e aspettativa, mentre in realtà non c’è altro che un proseguire degli eventi, come prosegue la vita fuori dal suo incanto.

Vi si coglie l’amarezza di un ambiente familiare rarefatto, in cui i sentimenti sembrano avulsi dalla realtà e resta la ma-

terialità cristallizzata negli elementi che compongono il qua- dro di un’evasione dal quotidiano, l’inganno, il sogno irrag- giungibile.

Faenza con le sue viuzze del centro storico, la stazione, diventa lo scenario notturno del vagabondare, quasi con un senso di vaga depravazione, di perdizione per uscire da un vuoto e rincorrere un cielo che tarda a venire.

Nel romanzo sembra di intravedere al di là di una metro- politana virtuale la prateria, il selvaggio West della collina appenninica romagnola, dove alcol e parole si mischiano ai sogni, alle illusioni e alle delusioni. La collina, il bosco, il ri- fugio sono vissuti come spazi di libertà, in cui i giovani pro- tagonisti trascorrono serate a bere e a parlare, cercando di essere se stessi, nudi nella realtà e nel sogno, in un’apparente solidarietà e in un’immensa solitudine.

Accadono cose, ma la scena resta nella sofferenza di un immobilismo che denota l’incapacità a costruirsi una propria autonomia (aspettando il cielo, aspettando Godot).

clAudio nAnni, scrittore, poeta, editore, ha vissuto a edim- burgo e a londra. È stato assistente sanitario presso il servizio di salute Mentale di ravenna e presidente dell’Associazione di Volontariato per la promozione della salute Mentale e psicofi- sica, organizzando diverse missioni umanitarie nei territori del- l’ex Jugoslavia.

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INTRODUZIONE

Gli esegeti faticheranno ad inquadrare il romanzo di Gianluigi come narrazione d’inizio millennio per- ché lo spaccato dei suoi giovani protagonisti appartiene ad

una nicchia ‘‘incasinata’’ del panorama adolescenziale con- temporaneo. Lo si intuisce constatando che in tutto il ro- manzo nessuno sfiora mai una tastiera, né mai uno sguardo accarezza un display: ci si conosce per la strada e non su fa- cebook. Sarà forse anche per questo che è facile affezionarsi ai protagonisti.

Gli incontri tra i vari personaggi sono sempre caratteriz- zati da una fisicità piena: faticano a capirsi, e se lo dicono chiaramente, ma hanno la pazienza di ascoltarsi, dote assai rara nella nostra società.

Inspiegabilmente continuano a conservare nell’animo il mito dell’amore che deve durare per sempre. Tanti adole- scenti hanno bisogno di credere che una storia non avrà mai fine, malgrado attorno a loro lo scenario dica inequivocabil- mente il contrario. Sentono un viscerale e contraddittorio bi- sogno di credere nell’eternità dei sentimenti, quando la frammentazione è palese ovunque.

« Io la mia vita l’ho già vissuta, adesso sto aspettando il cielo... ». È triste che a pronunciare questa frase sia Pietro, un uomo poco più che cinquantenne che dalla vita ha subito molti più schiaffi che soddisfazioni. E l’amarezza cresce, con- siderando che si tratta del solo adulto che goda della stima del gruppo di amici di suo figlio.

Fanno tenerezza i ‘‘novelli Don Chisciotte e Sancho

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Panza’’, Rocco e Peppi, che guerreggiano contro stendipanni e tricicli. Più che l’azione di due Black blocks, la loro rap- presaglia è più simile ad un atto di goliardia per combattere la noia.

Ha senso che i protagonisti accusino la propria città di pro- vincialismo: in gioventù si ha il diritto di detestarla, perché il mondo al di fuori di essa attende. Spesso è solo dopo aver vissuto in altre realtà che si riesce ad apprezzare le cose po- sitive del proprio luogo di origine. Ma neppure l’alternativa di trasferirsi in un’altra città o in un altro Paese viene presa in considerazione dai nostri protagonisti: « È impossibile an- darsene da qua... ». Essi sentono di non essere in grado di ri- costruirsi una vita, e riappare il pessimismo cosmico nelle parole di Franco: « Guarda me, che sono in manette a vita ».

In Aspettando il cielo, tra i simboli positivi per eccellenza troviamo il fornaio (ma solo dalle-alle, cioè in assenza della clientela) e l’entroterra appenninico alle spalle di Faenza. Non si tratta della semplice esaltazione di un ambiente bucolico in quanto tale, le distinzioni sono nette. Ci sono luoghi impervi, ma c’è per fortuna il Rifugio dell’Anima in cui ritemprare il proprio essere. Ci sono esseri da abbattere senza pietà, e c’è la realtà della reincarnazione del compagno morto in un rapace maestoso. Veder volare nel cielo il falco con la sua danza del- l’eternità è senza dubbio la fonte di energia che permette ai protagonisti di affrontare un nuovo giorno e, magari, far rina- scere la speranza.

MArco ferrAri è scrittore e professore di elettronica. nel 2011 ha vinto il concorso letterario indetto dall’‘‘Associazione culturale 150 strade’’ di Velletri, con il racconto Una cicatrice nel cuore. Ha pubblicato diversi libri e raccolte di racconti.


ASPETTANDO  

IL CIELO

di Gianluigi Valgimigli


Al Grande Capo indiano
Pelle di Lupo, sacro eremita del

Rifugio dell'Anima e
a Moral,
Signore dei Falchi che dall'alto

dei cieli veglia
in eterno su tutta la Balda.


UNO

La sera scendeva, il sole moriva all’orizzonte. Di là dalle valli una luce rossastra andava spegnendosi. Sulla Balda era tempo di tramonto.
« Eh, va be’... è andata così... ».

Pietro, capo indiano Pelle di Lupo, sacro eremita del Rifugio dell’Anima, stava seduto su un calanco ad osser- vare lo spettacolo del giorno che sfuma in sera e la sera che sfocia in notte. Tutte le volte, sì, tutte le volte che se ne stava assorto a contemplare l’arrivo del crepuscolo, una strana e piacevole malinconia s’impadroniva di lui. Gli occhi si bagnavano mentre i ricordi dei tempi andati gli of- fuscavano la mente. Laggiù, lungo la valle che ora si sten- deva silenziosa innanzi a lui, Pietro poteva ancora sentire l’abbaiare dei cani e i fucili che sparavano, le bestemmie lanciate per aria se la preda fuggiva... le storiche battute di caccia... quando lui c’era ancora...

« Ohi » chiamò ad alta voce, la testa rivolta al cielo. « Vecchio mio, dove ti sei sparito? Tutt’oggi insieme a me, e adesso ti sparisci? Proprio adesso che arriva il bello, e c’è uno splendido tramonto da ammirare... ehi imbezèl vieni mò a vedere che spettacolo... ».

Il Moral gli aveva tenuto compagnia per tutto il giorno,

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Gianluigi Valgimigli

ma da un’ora non si vedeva più. « Sarai stanco vecchio, eh? D’altronde monti sempre la guardia, dovrai pur ripo- sare ogni tanto. Non preoccuparti, fratello! ».

Si asciugò una lacrima con la mano sinistra e si alzò in piedi. Il buio sarebbe giunto in fretta e il Rifugio del- l’Anima non era dietro l’angolo.

Per andar lassù, lassù nel Santuario della Croce, aveva risalito un colle e si era fatto strada tra la vegetazione di un bosco che era cresciuta parecchio dalla sua ultima visita, l’inverno scorso, con la neve alta un metro. Perdono, il suo fedele coltello dal quale non si separava mai e che portava in una custodia allacciata ai pantaloni, aveva mozzato gli arbusti e i rovi, come burro.

Il giorno in cui il Moral divenne falco e lui decise di erigere un santuario alla sua memoria, Pietro cominciò col costruire una grande croce, più alta e più grossa di lui, sulla quale incise le parole di una poesia dedicata all’amico fra- terno. Quella grande croce sarebbe diventata La Croce. La trasportò sulle spalle, piangendo, dal Rifugio fin su per le valli. Senza mai fermarsi proseguì dritto verso il bosco, e solo lì si ritrovò costretto ad adagiare la croce in terra, con delicatezza perché non si rovinasse, e ad estrarre Perdono per farsi largo tra la frasca.

Tagliava, liberava il passo, poi tornava a caricarsi la croce sulle spalle, sempre così fino ad uscire dal fitto bosco. Ormai era notte, era partito di sera ma il buio l’aveva colto. Le stelle in cielo e una mezza luna erano l’unica fonte di luce. Ripetendosi che ormai fosse fatta, riuscì a risalire il calanco sfruttando le sporgenze per ada- giare prima la croce e poi tirarsi su ed issarla. Il sudore gli colava sugli occhi, mischiandosi alle lacrime.

Questo è per te, Fratello! aveva detto mentre piantava la croce sulla cima del calanco, rivolta alla grande valle

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della Balda, dove un tempo cacciavano assieme e scher- zavano e ridevano e piangevano, lui e il Fratello. Da al- lora il falco era giunto e sulla croce, spesso, si posava. Così era nata la leggenda della Balda. Una leggenda che per lui rappresentava una tra le più epiche d’ogni tempo. Ora, in- dugiando ancora lassù per qualche istante davanti a quella Croce, rileggeva per la millesima volta quelle parole che lui stesso aveva scolpito, la preghiera indiana al grande dio Falco.

« Buonanotte vecchio! » si voltò e cominciò a scendere il calanco, diretto al bosco, appena sotto di qualche metro. Una volta giunto al colle, ai cui piedi sorgeva il Rifu- gio, Antia gli andò incontro, sbucando da un cespuglio di

more selvatiche.
« Ehi Puzzina! » la salutò, chinandosi ad accarezzarle

il muso. Antia gli leccò la mano. Probabilmente sentendo il sapore amaro delle lacrime del padrone, d’un tratto la bestiola fuggì via, diretta chissà dove.

Adesso sì che era buio. Gli animali notturni comincia- rono il loro concerto. Pietro entrò nel Rifugio dell’Anima e tirò giù il materasso, incastrato al soffitto, ci si stese sopra e si mise in ascolto.

Adorava il suono della notte, gli uccelli che fischia- vano, il frusciare di qualche bestiola che s’insinuava tra l’erba, le rane e qualche rapace che intonavano un lugubre lamento... Si ritrovò all’improvviso a pensare a una notte di tanti anni prima. Venticinque o più. Marco, suo figlio, non era ancora nato... non era nemmeno in progetto, c’erano solo lui e sua moglie...

A quel tempo il Moral scoppiava di salute e insieme fa- cevano delle epiche battute di caccia che potevano durare giorni e giorni... il Rifugio dell’Anima l’avevano scoperto da poco e ovviamente era ancora un rudere col tetto bucato.

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Gianluigi Valgimigli

La prima notte che ci aveva dormito con sua moglie avevano fissato le stelle attraverso i buchi del tetto, stan- dosene sdraiati sul freddo pavimento di cemento. Avevano fatto l’amore più e più volte, con passione e ardore, con gli animali unici testimoni del loro piacere spirituale, per- ché sì, quello non era più piacere carnale, non poteva più esserlo...

Quella stessa sera avevano festeggiato il loro matrimo- nio indiano, era la prima notte di nozze. In realtà, si erano sposati tre anni prima, ma quello non contava, si era trat- tato di una comunissima celebrazione in chiesa come tante altre. E invece in quella sera stellata al Rifugio dell’Anima Pelle di Lupo, l’indiano, aveva deciso finalmente di unirsi profondamente alla sua dama. Aveva fabbricato lui stesso gli anelli e le collane, con corda di pelle e ossa di animali, e marito e moglie si erano adornati i capelli con piume di uccello e si erano pitturati il viso. Lui le aveva scritto una poesia, come voto matrimoniale, e lei lo aveva ascoltato ammirata, continuando a pensare che tutto quello non po- teva accadere realmente. Dopo era giunto il momento di amarsi e lei, raggiungendo l’estasi estrema, aveva urlato il suo nome, Pelle di Lupo, il nome del suo uomo, alla Balda intera. Oh sì, era stato tutto così perfetto quella sera, in un’epoca tanto lontana, quando ancora poteva permet- tersi di amare la sua donna e poi di telefonare al Moral e dirgli « Ohi, basterd, stasera si va su, eh? ».

Si stese per rilassarsi e rimase ad ascoltare gli animali notturni, ma ben presto scoprì di essere agitato e si rigirò sul materasso, sudando. S’impossessò di lui il demone della scrittura e sentì di dover sfogare ciò che aveva den- tro, vomitando parole su un foglio. Prese carta e penna e cominciò a scrivere, scrivere, scrivere... buttava giù tutto, senza pensare.

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I primi problemi seri erano emersi con la nascita di Marco, anche se in verità c’erano sempre stati sotto la su- perficie; problemi con la sua famiglia, con sua madre e con suo fratello, e soprattutto con quel vecchio figlio di put- tana di suo padre, la persona che più odiava al mondo. Era stato a causa di quest’odio che, appena aveva potuto, era scappato con moglie e figlio dalla loro abitazione e li aveva rinnegati totalmente, creandosi un alter ego, Pelle di Lupo, cominciando a dire che discendeva dagli indiani d’Ame- rica e tutto il resto...

Suo padre — faccia perennemente seria, mai un ab- braccio, mai un segno d’affetto, mai un sorriso, solo le cin- ghiate e le umiliazioni continue, il suo credersi sempre superiore e il suo sadismo nel farlo sentire una merda — ri- cordava tutti gli anni dell’adolescenza sprecati a cercare di instaurare con lui un rapporto, un segno della sua appro- vazione. Gli sembrava ancora di sentirlo: “Sono io il capo qui, comando io su tutto, li porto io i pantaloni”, mentre quell’ameba di sua madre non reagiva e accettava di farsi trattare da schiava, e mai una volta che lo difendesse dagli atteggiamenti violenti di lui. E poi era nato suo fratello, che al contrario di lui aveva tutto: l’amore, l’approvazione, i sorrisi, suo fratello il bambino prodigio! E quando erano cresciuti e suo fratello si era iscritto all’università di Bolo- gna, a legge, lui aveva già la schiena spezzata da anni di duro lavoro e solo la terza media. Così suo padre e sua madre riverivano il fratellino da studente modello, come un dono della natura, il quale poteva girare a testa alta per la casa e permettersi di rispondere male e di urlare addosso a sua madre, se faceva rumore con le pulizie di mattina presto alla domenica. E tutto perché il “poveretto” aveva studiato fino all’una ed era stanco e pretendeva di dormire. Lui, invece, si alzava alle quattro per andare in fabbrica e

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mai avrebbe osato lamentarsi, era il figlio zuccone e tutto il resto...

Pietro si fermò, smise di scrivere per un istante. Non era esattamente quella la verità. Lui non era il figlio zuc- cone, no, si ricordava bene quando suo padre, l’estate dopo la terza media, lo aveva chiamato in casa per dirgli di ab- bandonare la scuola e pensare ad andare a lavorare, perché i soldi in casa servivano e lui ormai era uomo fatto e po- teva benissimo cominciare a darsi da fare nel campo come fanno gli uomini fatti. Ecco, era stato per questo che non era andato più a scuola. Il suo primo lavoro l’aveva otte- nuto in un’azienda agricola fuori Faenza, e il padre aveva preteso che tutti i soldi andassero a lui, per costruire una nuova casa, un investimento, diceva, un giorno ne vedrai i frutti.

I frutti c’erano stati, ma solo suo padre ne aveva go- duto. La casa si era ingrandita, si era espansa, un altro ap- partamento era sorto al piano superiore. Poiché ovviamente era il caso di risparmiare sui muratori, chi me- glio di Pietro poteva dare una mano, dopo aver già passato una massacrante giornata al lavoro?

Poi, a diciotto anni, mentre suo fratello traghettava verso le superiori che lui non aveva potuto frequentare, era arrivato il lavoro in fabbrica. Massacranti giornate tutte uguali, senza fine... Solo la leva obbligatoria lo aveva sal- vato, e se n’era andato militare.

E fu proprio in quel periodo che conobbe il Moral e di- vennero subito fratelli per l’eternità. Fu sempre durante la leva che perse la verginità, con una puttana che riceveva in casa. Ricordava come la donna fosse andata su tutte le furie e l’avesse sbattuto fuori dopo essersi accorta che era venuto dentro al preservativo, in due botte, senza dirglielo perché aveva voluto rendere il rapporto il più duraturo pos-

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sibile. Ma la leva terminò e dovette tornare alla sua vita di prigione e al suo lavoro in fabbrica. Le battute di caccia in compagnia del Moral avevano rappresentato l’unica fonte di svago, alla domenica. Altre volte, i bagordi in giro per i monti e con le donnine per Faenza. Proprio una di quelle donnine sarebbe diventata poi la sua moglie indiana...

Gettò la penna e si prese la testa fra le mani. L’imma- gine di suo padre davanti agli occhi gli procurò un nuovo lancinante dolore. Un rancore profondo tornò a mordergli l’anima. I ricordi affondarono come lame affilate nel suo stomaco.

Quel porco, quel porco schifoso s’era innamorato della sua giovane e avvenente moglie. Le si avvicinava e le diceva: « Ah! come lecco io la figa non la lecca nes- suno... ». E quel giorno che lui era rincasato con la schiena distrutta, da una stressante giornata di fabbrica, e lei gli aveva detto, tremando, col bimbo in braccio, « Tuo padre mi ha attaccata al muro e ha cercato di baciarmi, mi ha toc- cato le tette e mi ha detto che mi desiderava e mi voleva as- solutamente », lui, da vero signore, senza rabbia e in tutta calma, le aveva detto di preparare le valigie. Così se n’erano andati nel cuore della notte, senza dire nulla a nes- suno, avevano alloggiato a casa del Moral e dei suoi geni- tori finché un contadino non aveva accettato di dar loro la propria tenuta di campagna, in cambio del servizio di guar- dia e del lavoro di Pietro come operaio presso la sua azienda. Non aveva mai più rivisto da allora suo padre.

Dopo uno sforzo, sorridendo amaramente, si chinò e ri- prese la penna. « Ce n’è ancora da raccontare, ce n’è... ». Ricominciò a buttar giù parole.

‘‘Tutto è finito con un sogno’’ annotò, soffermandosi un istante.

Un sogno di una villa in campagna, il sogno della sua

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vita, la sua famiglia, sua moglie e suo figlio, i cani... quella grande Villa dei Sogni che la banca si sarebbe ripresa.

“Il sogno della mia vita, finalmente realizzato, final- mente concreto, ha finito per distruggere la mia vita...”.

Un giorno aveva deciso che fosse giunto il momento. Si era fatto il culo sin da piccolo e sulla soglia dei cin- quant’anni voleva raccogliere i frutti. Al telegiornale par- lavano di una crisi nascente, una crisi che avrebbe minato profondamente l’economia generale dell’Italia, ma lui non se ne curava. Il padrone della casa presso cui lavorava lo aveva stufato con i suoi lavori umilianti e non ne poteva più di quella vita che mai aveva scelto. Riunì la famiglia a tavolino e cominciò ad esporre il suo progetto: la costru- zione della Villa dei Sogni. Marco aveva diciotto anni, avrebbe finito la scuola quell’anno e sarebbe andato a la- vorare, e così avrebbe potuto contribuire anche lui. La mo- glie aveva la sicurezza del suo stipendio di infermiera. E lui, Pietro, si stava già infilando a lavorare presso un’azienda di facchinaggio, grazie a una buona parola di un amico. Si poteva fare. Si doveva andare in banca e sti- pulare un mutuo, un mutuo che avrebbero dovuto pagare per anni, certo, ma che si poteva sopportare. La villa l’aveva già trovata: una costruzione a due piani in campa- gna, con un ampio parco privato, un fienile, un casotto e un pozzo.

« Bisognerà ristrutturarla, ora è un rudere, ma per ri- sparmiare ci lavoreremo io, Marco e un mio amico mura- tore, ora pensionato, da pagare in nero, tranquillamente! » aveva detto, entusiasta, alla moglie e al figlio.

E così si erano indebitati con la banca per vent’anni, riuscendo quindi nell’impresa di ristrutturare il rudere, tra- sformandolo nella splendida abitazione a lungo sognata. Tutto era partito bene, ma la situazione era degenerata in

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fretta. Sua moglie aveva iniziato a cambiare, era diventata strana, scontrosa e apatica verso la famiglia. Il suo stipen- dio cominciò misteriosamente a sparire, così divenne dura pagare il mutuo a fine mese. Lui e suo figlio iniziarono a lavorare il triplo, a spaccarsi la schiena tutto il giorno cer- cando di starci dietro, ma le bollette s’accumulavano nei cassetti, nascoste dalla moglie che a loro diceva “sì sì le ho pagate!”, quando in realtà i suoi soldi finivano altrove. In- somma, tutto era andato a rotoli, tutto da buttare. Arrivò il momento di separarsi e lo fecero senza metter di mezzo avvocati, dato che i soldi mancavano, e lui, il vecchio lupo tradito e affranto, si era preso un affitto per i conti suoi. La foto della villa se ne stava ora nella bacheca di qualche agenzia. “Bello, proprio bello!”.

Era andata così.

Tentennò un attimo, poi urlò e la notte tutta risuonò del suo dolore inconsolabile.

« Ora è là a marcire, quella fottuta casa, con una pazza che ci muore dentro, affogandosi d’alcool! Dioboia! ».

Anche il Moral l’aveva abbandonato, in una fredda notte d’inverno; l’aveva lasciato solo con la casa da pa- gare, il fiato della banca sul collo e il fiato che puzzava d’alcol della moglie impazzita. Se l’era portato via il can-

cro«Quella serpe ha cercato anche di avvelenarmi una sera. Mi ha messo il veleno per topi nella minestra, lo sai Moral, eh? ».

Per fortuna Marco, che aveva spiato sua madre, lo aveva salvato.

« Proprio lei, proprio lei che veniva a caccia con noi e con noi scherzava, ti ricordi, Moral? ».

Pietro si battè con forza il pugno sul ginocchio. Sollevò il capo e gli parve di vedere lì nell’oscurità della stanza, a

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pochi metri da lui, avvolto in una luce diafana, il viso del Moral, poco prima della sua fine, con i suoi lineamenti ormai tirati ed emaciati, quasi irriconoscibile. Il cancro, quel porco schifoso se l’era mangiato da dentro!

“Il tumore non deve più uccidere... Deve morire!” scrisse, a grandi caratteri cubitali, sulla pagina ormai tutta spiegazzata su cui prendeva forma il suo poema.

Gli ultimi mesi erano stati un’agonia pazzesca, un pianto continuo; le storiche battute di caccia erano solo un ricordo sbiadito nel tempo. Prima dal Moral, a vederselo morire davanti ogni giorno di più, e poi a casa, la Villa dei Sogni diventata Villa degli Incubi, con sua moglie ubriaca che l’offendeva e gli urlava dietro ogni sorta di impreca- zione.

“Be’, mi sono proprio divertito nella mia vita, sì, pro- prio divertito. Ormai a cinquant’anni suonati, che potrò mai fare dopo essermi divertito così tanto? eh? che cosa?”.

Si alzò di scatto dalla sedia e guardò fuori dalla fine- strella del Rifugio, stropicciandosi gli occhi. Fissò il cielo. Da qualche parte il Falco, ormai ristorato, aveva sicura- mente ripreso il suo volo.

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DUE

Il Moral volava alto nel cielo, lanciando il suo grido di libertà, in barba a questo mondo che incatena. La pioggia era durata poco, ma era stata sufficiente per ren-

dere il terreno viscido e limaccioso. Avanzando a fatica tra l’erba alta e il fango, nelle strade in discesa, Franco lottava per non scivolare.

Questi dannati stivali! Maledetta pioggia, tutte le volte che vengo quassù, sempre così...

Si fermò un istante. La vista era meravigliosa e doveva godersela. Attorno a lui le colline e le cime più alte pare- vano come disegnate sullo sfondo. Una leggera nebbio- lina, una morbida pennellata del pittore di quel grande quadro, avvolgeva tutto, inumidendo delicatamente l’erba che a sua volta bagnava Franco, intento a passarvi in mezzo. Immensi campi agricoli coprivano le vallate.

Franco passò di fianco a un grosso container che qual- che contadino usava probabilmente come riparo per il trat- tore. Di case non se ne incontravano molte, se ne intravedeva qualcuna in lontananza, la maggior parte di- roccata. I suoi stivali nel frattempo stavano diventando sempre più pesanti: al di sotto s’era formata una spessa suola di fango. Bestemmiò mentre tentava di ricordare se

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fosse quella la strada giusta per giungere al rifugio. Ma su nel cielo volava fiero il Moral, signore dei falchi e padrone supremo di quelle lande, suo antico terreno di caccia, e così, seguendolo, non poteva sbagliare. Il Moral lo avrebbe portato a destinazione.

Continuò a seguirlo, continuò a seguire lo spirito della Balda, ed ecco che un cane gli venne incontro all’improvviso. « Ciao Antia, bella... » disse, mentre si chinava ad ac-

carezzare la bestiola.
Riconobbe gli alberelli ai lati dell’entrata. L’entrata al

Rifugio dell’Anima.
« Ohi, giovane! » lo salutò Pietro, intento ad accendere

il fuoco per scaldare il vino.
« Ciao Pietro, ce l’ho fatta, è stata un po’ dura, ma se-

guivo il Moral! ».
« Già, seguendo lui non puoi sbagliare; è il capo della

Balda, qua c’è nato e ci vive tuttora, solcandone i cieli... ». Gli occhi di Pietro diventarono rossi per un attimo, come sempre accadeva quando parlava dell’amico morto,

ora reincarnato in falco.
Franco s’avvicinò al fuoco per scaldarsi. Antia si mise

accanto al padrone a mugolare.
« No, no, puzzina, oggi niente caccia, abbiamo ospiti! »

la redarguì Pietro, zittendola con un gesto della mano. Due scoiattoli guizzarono tra l’erba e si tuffarono verso la grande quercia, arrampicandovisi sopra. La grande quer- cia, in estate, proiettava la sua imponente ombra sul Rifu- gio dell’Anima, nascondendone dal sole l’intero lotto di terra. Siccome adesso non era estate, nessun’ombra alber-

gava ai piedi della quercia.

E neppure noi abbiamo l’ombra, siamo spettri nella nebbia pensò Franco, guardandosi i piedi.

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« Dai, giovane, il vino è caldo, iniziamo mò a darci den-

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tro, così ci scaldiamo ». Porse a Franco una tazza piena di vino caldo aromatizzato, roba che faceva lui.

E faceva tutto lui, lì. Il Rifugio dell’Anima era il suo piccolo regno, la sua fortezza che l’avrebbe riparato dallo scoppio della rivoluzione, quando fosse giunta.

Era stato diversi anni prima, durante una battuta di cac- cia nella valle della Balda, a Oriolo dei Fichi, che Pietro e il Moral si erano imbattuti in un piccolo rifugio diroccato. Quel rifugio era diventato il loro capanno di caccia. Dopo diversi altri anni e in seguito alla morte del Moral, Pietro aveva deciso in suo onore e in onore della loro fraterna amicizia di ricostruirlo. Era riuscito dopo giorni e giorni di duro lavoro a rimetterlo in piedi, ricostruendo il camino, intagliando le finestre e la porta, che prima mancavano, e arredandolo per quello che lo spazio permetteva. Infine, come tocco di classe, in una trave di legno sopra all’en- trata, aveva inciso: Rifugio dell’Anima, con tanto di data di ricostruzione.

All’interno era riuscito ingegnosamente a riempire tutto il pochissimo spazio con lo stretto necessario per vivere. Aveva costruito piccole dispense che poi aveva attaccato al muro. Vi teneva piatti, posate, caffè, zucchero, sale e vi- vande varie. L’angolo letto non era altro che un materas- sino gonfiabile, agganciato al soffitto mediante una corda che lui slegava solo di notte. Questo stratagemma consen- tiva durante il giorno di lasciare libero l’ambiente, che in effetti era talmente piccolo da essere riempito da un ma- terasso gonfiabile.

Nello spiazzo erboso attorno alla casupola, Pietro aveva costruito tre panche con assi di legno, due sedie con ceppi d’albero e una tavola con un asse da muratore. La la- trina era una piccola capanna anch’essa di legno, sempre ovviamente fatta in casa, con tanto di porta munita di ca-

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tenaccio e un buco al centro. In quel buco si defecava e il tutto finiva in una pozza profonda scavata nel terreno. Mano a mano che le feci s’accumulavano, diventavano di nuovo terra. A quel punto, con una vanga, Pietro non fa- ceva altro che riscavare. Semplice.

Per l’igiene personale c’era una mezza botte tagliata e piena d’acqua, con il sapone accanto. Per lavarsi il sedere un secchio vicino al buco, la cui acqua andava cambiata sempre, per motivi igienici.

« L’ho costruita nel caso venisse quassù una figa » scherzava Pietro, riferendosi alla latrina, « così non ci fac- cio brutta figura, non si sa mai nella vita... ».

Pietro era un genio, era un folle, era un poeta della na- tura. Aveva sangue indiano nelle vene. Seppur romagnolo fatto e finito, in verità era un indiano, la terra l’aveva par- torito. Il giorno della sua morte la terra se lo sarebbe ri- preso e il suo spirito si sarebbe incarnato in un altro falco che, insieme al Moral, avrebbe danzato per i cieli “la danza dell’eternità”.

Lui e Franco sedettero sulle panche ai lati del tavolo, al centro del giardino. Bevevano alla loro salute e al- l’amicizia.

« Ah, Franchino, dimenticavo, ho scritto dei nuovi rac- conti di caccia, te li vado a prendere! ».

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« Ottimo! ».

I racconti di caccia di Pietro erano lunghi poemi sulla natura, scritti col linguaggio pieno d’amore dei grandi capi pellerossa. Erano sproloqui beat, scritti da chi non sapeva cosa fosse il beat, quindi puri e sinceri, perché non conta- minati da influenze culturali. Erano la vera poesia, quella che mille anni di studio incessante non potranno mai por- tare a scrivere. Perché semplicemente frutto del candore dell’anima.

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Franco li lesse e, come sempre, gli parvero eccellenti. Si dedicarono un altro giro di bevute.
« Oh, Pietro, mica ha detto Marco se veniva, no? ».
« Bah, ma lascia che stia a casa, va’; se dopo deve venir

fin qua e quella stupida di sua madre inizia a chiamarlo di- cendo che si vuole ammazzare... perché lui ha scelto me... bah... lascia perdere... ».

Pietro si voltò a guardare il cielo. Il Moral era ancora lassù che girava in cerchio, e con un grido li salutò. Men- tre tornava a versarsi del vino nella tazza, Pietro sospirò.

« Comunque, dai » esclamò Franco, « intanto a te ti va meglio, ti sei liberato, nella nuova casa nessuno ti offende più e ti urla contro... » e seguì l’esempio dell’amico e si riempì la tazza.

« Ah sì, hai ragione, ma questo non risolve nulla, adesso mio figlio è rimasto solo nella sua lotta... e poi, in fondo, mi ero quasi abituato agli insulti di quella, tanto ormai m’entravano da un orecchio e uscivano dall’altro... l’unica volta che mi sono incazzato è stato quando ha tirato in mezzo chi non doveva entrarci... ».

Pietro si riferiva a un avvenimento di alcuni mesi prima. Sua moglie, solita apostrofarlo insensatamente con vari nomi e auguri di morte precoce non appena varcava la soglia di casa, quella sera aveva osato troppo. Aveva tirato in mezzo il Moral, dicendo: « Ah, anche lui l’aveva capito quant’eri stronzo! ». Pietro, non vedendoci più, afferrato il coltello, aveva cercato di ucciderla. Marco per fortuna era riuscito a bloccare il padre con la forza della disperazione. Era successo questo, più o meno. Si era trattato dell’unica volta in cui Pietro, sacro poeta eremita indiano del Rifugio dell’Anima, s’era seriamente incazzato.

« Oh, la pentola s’è vuotata, l’abbiam bevuto tutto, ne preparo un’altra ».

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S’alzò e si mise a preparare altro vino da scaldare. Ag- giunse i vari odori e sapori, poi si diresse al fuoco che, vivo, ardeva ancora.

La mattina intanto stava finendo. Antia dormiva nella cassetta di legna che le faceva da cuccia. Un leggero lan- guorino nasceva nello stomaco dei due amici.

« Vado a prendere la mezza capra che ho in auto » disse Pietro, mentre si voltava e si allontanava dal campo.

Aveva anche l’aspetto d’un capo indiano, notò Franco mentre lo guardava tra l’erba alta, con quella coda di ca- pelli lunghi e neri (imitata anche da Marco che pareva una sua versione mignon), l’aria seria e calma del volto, la struttura fisica possente e il passo deciso. Andava per i cin- quanta, ma poteva benissimo essere un ventenne come loro. Anzi, era molto più forte e vigoroso di loro, temprato, scolpito dalla forza della natura.

Tornò poco dopo con la mezza capra e si mise a scuoiarla usando Perdono. Tutto il suo equipaggiamento da caccia aveva un nome. Il fucile era Redentore.

« Quando arriverà la rivoluzione, che già sta covando nella mente del malcontento italiano ed è ormai pros- sima » diceva sempre, « quei porci che stanno in alto prima li perdonerò e alla fine li redimerò ». Secondo lui “i porci che stanno in alto” dovevano iniziare a smettere di dormire sonni tranquilli.

Scuoiata la capra cominciò a sezionarla, e quindi via questo pezzo e un taglio quà, via quest’altro. La sua espe- rienza di cacciatore gli aveva insegnato tutto. Anche a scri- vere, a poetare. Finito di porzionare l’animale, dispose i pezzi in una teglia e condì con vari sapori, raccolti alle sei di mattina nel bosco. Bacche di ginepro, rosmarino selva- tico, aglio selvatico, qualche tubero a pezzetti di contorno. Un pranzo squisito, nulla da dire. Erano sempre pranzi

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squisiti quelli di Franco al Rifugio dell’Anima. Il tempo si fermava mentre lui mangiava e beveva, intento ad ascol- tare la poesia di Pietro, le grida di libertà del Moral e il canto della Natura. Questa era la vita, la salvezza unica da qualsiasi rivoluzione prossima o anche solo dall’angoscia in cui, ogni tanto, le loro quattro mura li stritolavano.

Alla fine del pranzo Pietro cominciò a preparare il caffè. Il caffè alla Pietro, ovvero due dita di grappa con un goccio di caffè, era fenomenale.

« Giovane, va’ a prendere lo sciacquabudella dalla can- tina! ».

Franco s’alzò e fece quello che Pietro gli aveva appena detto. Rimosse la finta pietra che occultava il buco nel ter- reno dove stavano gli alcolici, la cantina, appunto. Anche quella era un’altra ingegnosa invenzione dell’amico. Te- neva al fresco l’alcol e, al contempo, lo nascondeva da chiunque, avventuratosi lassù, potesse rubarlo.

In pratica Pietro aveva scavato una buca molto pro- fonda e abbastanza larga da poterci incastrare una botte, il tutto coperto dal tappo della stessa botte a cui però lui aveva incollato una pietra, una normalissima pietra grigia di medie dimensioni come tante se ne trovano lassù. Chiunque avrebbe pensato semplicemente a una roccia che sorgeva dal fondo della terra, tanto era incastrata bene al terreno. A parte qualche bottiglia di vino regalata dagli amici, gli alcolici della cantina erano tutti prodotti da Pie- tro. E anche all’alcol che produceva affibbiava un nome. C’erano “il latte di vecchia”, “il piscio del diavolo”, “le lacrime di Venere”. ‘‘Il piscio del diavolo’’ era micidiale, aveva una gradazione infernale, luciferina, da qui il nome.

Franco prese una bottiglia di quest’ultimo e la portò in tavola. Dopo il caffè la sua povera testa iniziò a girare, e quella dolce sensazione che fin troppo bene conosceva lo

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avvolse col suo caldo abbraccio. La dolce sensazione che stava evidentemente provando anche Pietro e che signifi- cava “siamo avanti coi lavori, vecchio figlio di puttana!”.

« Dobbiamo essere pronti, dannazione » disse Pietro, versandosi tre dita di piscio di diavolo. « Da quant’è che non spari, giovane? ».

« Ma diobò, ero l’altro giorno da Marco, abbiamo spa- rato, ma non ho beccato niente, come sempre... ».

« Ah, non ti preoccupare, un’nè brisa gnìt. Quando li avrai ai tuoi piedi i bersagli vedrai che li prendi, li prendi, oh, tìl tò drèt in tla fàza, dioboiàza ».

Si udì d’improvviso un grido nel cielo.

« Ecco, giovane, lo senti? Hai sentito il grido del falco? Anche Lui sta ridendo con noi adesso, sta partecipando alla nostra festa. Lui è sempre qua, difende questa terra sacra, la sacra Balda, dagli spiriti maligni, boiagiuda! ».

Franco guardò meravigliato in su e assentì con la testa.

« Perchè quei maledetti spiriti se ne stanno sempre lì, in agguato, tra la frasca, nel buio umido del sottobosco. Qua però non possono brisa venire, oh no, qua c’è Lui che protegge con la sua santità la terra natìa ».

Pietro si fermò e prese fiato per qualche istante, esta- siato dalla visione del falco che volteggiava alto sopra le loro teste. « Lassù sul crinale, vedi? Là, sotto quella croce, è là che dorme il sonno eterno il Suo corpo carnale, ma è un corpo inutile adesso, non gli serve più, perchè è eterno ora, capisci? Anch’io un giorno volerò al suo fianco... ».

Pietro chinò il capo e pianse. Franco lo guardò ammi- rato, con le guance rosse di ebbrezza, in estasi. Quello era il Momento, lo capiva bene, il momento era stato rag- giunto... da lì in avanti era solo un prepararsi a prendere il volo.

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TRE

La prima cosa che Franco sentì mentre parcheggiava furono le strilla del bimbo che giocava. Il bimbo, suo figlio...
Lentamente salì le scale che portavano al suo apparta-

mento e già le budella gli bruciavano.

Forse sono rientrato troppo presto, dovevo ancora star- mene al Rifugio.... ma no, sono le sette passate, se ne sarà già andata, l’idiota del suo tipo sarà già venuto a ripigliarsela...

Aprì e... lei c’era ancora!

Tutte le volte che gli capitava di trovarsela davanti gli veniva in mente ogni cosa, tutto quello che avevano pas- sato e il tragico epilogo. In ogni occasione veniva sputato fuori uno strano miscuglio di residui d’amore, rancoroso odio profondo, e una spruzzata d’orgoglio ferito.

Stava lì, la sua ex compagna, la madre di suo figlio, a giocherellare col bimbo, sbaciucchiandolo ogni tanto, così come sbaciucchiava quell’idiota del suo compagno.

Che schifo.

Quella stronza veniva sempre, ogni dannato giorno, lì, a casa sua, dato che il bimbo era stato affidato ai suoi ge- nitori. Arrivava, faceva due meraviglie al figlio, poi il tipo se la veniva a riprendere.

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Ma i giorni peggiori erano quando l’idiota non veniva e lei doveva dormire sotto il suo stesso tetto, nella sua casa, nel letto degli ospiti, a sozzarlo delle impurità di quell’al-

tro.Franco tirò dritto a testa bassa, come sempre, e si di- resse in camera. Si sedette sulla sedia e attese, con un pac- chetto di fazzoletti in mano.

Sapeva già che avrebbe pianto e quelli gli servivano perché piangere tanto fa smocciolare tanto. Sempre così, un calvario insopportabile, ma poi pensava a ciò che di- ceva Marco, al fatto che ormai non avesse più importanza nulla e quindi andava bene così.

Ecco, le lacrime arrivarono bruciandogli gli occhi. Pianse silenziosamente, umilmente.

Ho buttato via tuttoho sbagliato tutto, ho sprecato tutto...

Quel tutto nasceva tre anni prima...

Era febbraio, quante cose che non dovevano accadere erano accadute, quante cose che dovevano andare meglio erano andate peggio, troppe...

Stavano alla baracchina di Mario, a Faenza ovviamente, dato che quel dannato cimitero di case era tutto il loro mondo, di sabato sera, tipica cena dei sabato sera.

Erano lui, Marco, Gimmi, Clara e Seba, quest’ultimo che diceva che la sua vita stava andando un po’ meglio perché si stava intortando una tipetta e di lì a poco si sa- rebbero messi insieme.

Lui e Clara mangiavano un cinese, mentre Seba sgra- nocchiava patatine fritte e Marco e Gimmi non ricordava, ma in ogni caso si trattò di una cena veloce e se ne anda- rono a scrivere il loro libro, lasciando la notte a loro tre.

Un’amica di Clara che aveva da poco lasciato il gruppo per seguire un amore che probabilmente l’avrebbe portata

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alla rovina, doveva essere rimpiazzata. E quale rimpiazzo migliore se non un’altra ragazza, giusta compagnia per Clara. E così lei tirò fuori il cellulare e fece: « Questa è la tipa a cui ho chiesto d’uscire con noi; glielo chiedo già da tempo ma mi ha sempre detto di no perché non ha il pas- saggio o deve badare al fratello piccolo che c’ha, forse il prossimo sabato viene... ».

Sullo schermo apparve una foto: Clara insieme a que- sta fantomatica ragazza. Sandra, ma tutti la chiamavano Sandrina per via del suo aspetto da bambina. Capelli ca- stani, lunghi, faccia minuscola che sembrava fosse schiac- ciata, col viso tutto attaccato e la fronte un po’ grande, che lui ricordava non essergli piaciuta a quel tempo.

Ne domandò comunque l’età a Clara.
« Diciannove » aveva risposto l’amica.
Gettò a terra il fazzoletto sporco e ne tirò fuori uno pu-

lito. Diciannove anni, all’epoca, già, diciannove... Sorrise malinconicamente ricordando come in quel periodo ci pro- vasse con tutte. Anche se una non gli piaceva più di tanto, la rivestiva di complimenti per cercare di portarsela a letto... aveva una dannata voglia di scopare. Ma con que- sta, con questa che era più grande di lui di un anno si sen- tiva già affondato. Ma sbagliava, oh, se sbagliava...

Venne infatti quel sabato sera e Aurelio li aspettava in macchina. Era venuto insieme a Marco a pigliarlo da casa, il buon vecchio Aurelio che al tempo ancora usciva con loro e via, alla volta della residenza di Clara.

Aurelio aveva parcheggiato e lui era sceso per fare uno squillo all’amica e attenderla sotto casa. Quella sera era elegante, impeccabilmente in nero, camicia nera con giacca nera, jeans nero, guanto nero e scarpe nere, quelle che il padre portava al suo matrimonio, scintillanti e con stile.

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Era l’inverno nel quale aveva adottato l’elegant-style, successo personale, rispetto di Marco ma, a quanto pare, eterno disprezzo della figa.

Clara gli disse che stava terminando di truccare la sua amica e poi sarebbe scesa. Faceva un freddo porco, lui tre- mava come una foglia ed era depresso. Solitamente quando Clara gli presentava una nuova tipa partiva in quarta, dicendo ‘sta volta me la faccio, eppure quella sera, quella sera il cambio era in folle, colpa dell’anno in più che la tipa portava...

Oh, ricordava bene il momento in cui scesero. Gli parve di vedersele lì davanti, adesso, al centro della stanza. Ri- cordò la sua sorpresa nel vedere la nuova tipa perché sco- prì di essersi sbagliato giudicandola dalla foto. Era carina, cavoli, gli piaceva!

Lo raggiunsero e fu il momento delle presentazioni.

Piacere Sandrina piacere Franco.

Era vestita di viola, un vestito lungo fino alle caviglie con pantacalze e finale in stivaletti neri, faccia esagerata- mente truccata dalla pesante mano di Clara.

Il pacchetto di fazzoletti gli cadde di mano. Lo lasciò lì. Ah, la buona vecchia Clara, era sempre pesante col trucco...

Qualcosa di strano c’era quella sera, sì, qualcosa che quasi si sentiva nell’aria. Clara, normalmente disinteres- sata, sembrava quasi voler spingere Sandrina tra le sue braccia. Saliti in macchina, infatti, fece di tutto per far in modo che la nuova ragazza si sedesse al suo fianco. Oh, lui al tempo non poteva di certo immaginarlo, ma la cosa era combinata.

Ebbene sì, Sandrina era uscita con loro appositamente per conoscerlo, perché l’aveva visto in foto e non le sarebbe dispiaciuto farsi intortare. Al diavolo quindi l’anno in più.

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Lei era diversa da tutte le altre, oh se lo era. Il fatto che non le importasse d’essere più grande di lui già valeva molto. Ma anche in tutto il resto era differente. Non ti snobbava, non faceva la superiore né quella che vuol farsi desiderare; era aperta e socievole, era un altro mondo per lui e ne rimase affascinato.

Tremendamente.

Si recarono poi, come di consueto, al Nottetempo per fare il pieno d’alcolici. All’epoca lui, Clara e Aurelio fini- vano sempre imbariaghi tutti i sabato sera. Era un modo per vincere la noia. Oggi, invece, un modo per battere la depressione.

Quella sera al Nottetempo! Decisero di giocare al cor- teggiamento delle dame, in questo caso di Sandrina, e il primo fu Aurelio. Marco era andato fuori a fumare.

Il povero Aurelio non era molto abile a parole e farfu- gliò un mucchio di boiate sconnesse. Quando venne il suo tempo, lui capì che non c’era necessità alcuna di utilizzare il linguaggio verbale e si alzò, s’inchinò davanti a San- drina, le prese la mano con estrema galanteria e gliela baciò.

Lei divenne rossissima, bordeaux.

Dentro di lui qualcosa scoccò, si fissarono un attimo solo e capirono, capirono che il destino li avrebbe legati stretti stretti.

Quanto stava bene all’epoca, e non se ne rendeva conto! Adesso, ah, adesso sì invece, sì.

La seconda volta che la vide era il quattordici febbraio, San Valentino. Loro, povere anime senza compagno, si con- solavano tra cavolate sparate a palla e birra al Nottetempo, con Seba che quella sera ne diceva da piegarsi in due.

Clara insistette nello scattare una foto con lui e San- drina abbracciati. Lui era felice, beveva come un animale

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insieme ai suoi amici, rideva delle cazzate di Seba e so- prattutto stava intortando con Sandrina.

Quando quest’ultima se ne fu andata, tenne un breve ma intenso conciliabolo con Clara, la quale gli disse, in via definitiva, che la Sandra lo filava. Era fatta.

Ah! Ahahaha, e poi, alla fine di quella serata, si ricor- dava benissimo un giocoso litigio con Seba su chi fra loro due si fosse riuscito a mettere con Sandrina.

La risposta lui gliela disse, secca: « Mi dispiace, boy, ma Clara m’ha detto prima che già mi fila... ».

Anche l’amico capì che era fatta.

E così si mise con lei in via ufficiale, la quarta volta che si videro. Ne avevano già gettato le basi alla terza uscita, pomeridiana, a far compere per il compleanno di Seba. S’erano lasciati alla stazione di Faenza con un piccolo bacio ancora pudico, un leggero lambire di labbra, con lei che disse una cosa che lui non si sarebbe mai aspettato, e che gli fece nuovamente pensare quanto fosse diversa da tutte le donne del mondo.

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Era vergine!

E non solo, non aveva mai limonato con un ragazzo in vita sua, anzi, non aveva nemmeno mai dato la mano a un ragazzo. Era quindi un tessuto lindo e puro, senza macchia.

Giunto a casa le scrisse tre canzoni che ricantò con la chitarra. Diavolo, se era preso! Iniziò a canticchiare men- talmente le canzonette che le scrisse all’epoca e, con stu- pore, s’accorse che le ricordava ancora perfettamente. Venne così la sera del quarto incontro, domenica 22 feb- braio, compleanno di Seba, uno dei giorni più belli della sua vita. Quella stessa mattina era andato dal fioraio del cimitero, aperto anche il dì santo, per comprarle una rosa bianca, e, quando scesero dall’auto (lui e suo padre erano andati a prenderla a casa sua a Granarolo Faentino perché

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lei non aveva il passaggio), gliela diede e le disse la fatidica frase che la fece innamorare e che non potrà mai scordarsi neanche fra cent’anni.

« Questa è una rosa bianca, simbolo di purezza e sem- plicità, per una ragazza pura e semplice che mi ha rapito il cuore... » sussurrò piano piano, ora, nel silenzio vuoto della stanza, con la voce leggermente arrochita e stanca.

Oh, il suo viso, quella sera, come s’era illuminato a sen- tire quella frase...

Poi, a Villa Rotonda a mangiare la pizza e, una volta dato il regalo a Seba, si esternarono dal gruppo per amo- reggiare in pace; uscirono nel cortile, dietro la villa, loro, solo loro due e basta, in cima al colle, a guardare la strada di sotto e le case e le vallate sullo sfondo, costellate di campi agricoli, loro, solo loro, sul manto erboso cosparso di brina, nella dolce sera innamorata, con la primavera an- cora lontana, eppure già fiorita nel loro cuore, loro, solo loro e basta.

E sarebbero sempre dovuti rimanere lì, porcaputtana, lì, fissi, immobili in quel tempo, sempre e solo lì, perché fu solo lì che stettero veramente insieme, veramente loro, ve- ramente una coppia di giovani innamorati che non pensano a nulla se non a loro, solo lì, lì, sempre, fermi lì.

Si battè con forza la mano chiusa a pugno sul petto. Le lacrime erano amare, bruciavano, facevano male, così male...

Valverde di Cesenatico, qualche tempo dopo, Hotel Abacus, al mare, dove entrambi si sverginarono, col ma- linconico profumo della fresca brezza che spirava dalla fi- nestra della camera dischiusa, dischiusa sulla vista blu cobalto del cielo puro d’estate che s’immergeva nel pro- fondo mare, in un mischiarsi di tinte azzurro-bluastre, da non capire più se la vita che l’uomo vive è reale o è un lun-

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ghissimo sogno ad occhi aperti dal quale ci si sveglia solo da morti...

Si batté di nuovo il pugno sul petto, questa volta più forte, e le unghie gli si conficcarono nella carne e la carne bruciò. Non era durata poi molto quella loro idillica feli- cità... L’inizio della loro attività sessuale si era scontrata con l’inizio dei loro problemi relazionali.

Quella vacanza al mare, infatti, tolti i momenti intimi, fu un incubo, con lei come sempre divisa a metà tra lui e la sua famiglia, con lei che manco una settimana per i cazzi loro potevano passare, che subito i suoi dovevano telefo- nare per dirle vieni giù che c’è la nonna da badare. Lei lo fece, ci andò, interruppe la loro vacanza sogno e lui scappò via e lei gli corse dietro, come avrebbero fatto tantissime altre volte; lui che le urlava contro la nostra storia è finita per sempre, e lei a piangere come una fontana e a dirgli che non poteva capire.

Certo, non poteva capire. Lui che aveva un’altra menta- lità non poteva capire lei, donna del sud, con il detto anco- rato nell’anima “la famiglia prima di tutto”. Poteva rispettare questo da ignorante sull’argomento ma, cavolo, almeno per una settimana, una fottutissima settimana in pace...

Il loro primo problema fu quindi di tipo familiare. Lui si sentiva schiacciato, schiacciato dai suoi, con lei che tutte le volte che la andava a prendere gli diceva, vieni su che i miei ti vogliono vedere, vieni su a salutare per il rispetto...

TUMP!
Un altro pugno s’abbattè feroce sul suo petto... Checcazzo voleva mai dire il 
rispetto? Mai in vita sua

aveva visto o sentito parlare di cose del genere.
Più il tempo passava e più si stava accorgendo che la si- tuazione stava prendendo una piega rovinosa quando, dopo appena due settimane che erano insieme, i suoi di lei invi-

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tarono i suoi di lui a casa loro, a pranzo, per far conoscere le famiglie, dissero.

Pensare che fu costretto ad andare a casa loro, a pre- sentarsi a suo padre, per avere la sua benedizione, il terzo giorno della loro relazione! Ma inizialmente mandava giù, probabilmente perché ci teneva così tanto a quella ragazza. Ma le cose non furono mai semplici, non lo furono mai, mai.

Cercava di fuggirle ma lei gli correva dietro, lo chia- mava in continuazione al cellulare, anche se non le ri- spondeva; prendeva il treno, rubava una bici alla stazione e andava a casa sua, gli si buttava addosso e urlava come una matta, rossa in viso, io ti amonon posso vivere senza tesei tutta la mia vita, eccetera eccetera, e a lui sarebbe andata anche bene, se non vi fosse stata la sua famiglia sempre di mezzo a pensare al giorno del loro sposalizio, eccetera eccetera...

Eeeeeeeh... tirò un sospiro profondo, era giunto il mo- mento di ricordare ciò che lui invece aveva fatto di male, eh sì, perché col tempo era diventato sempre più cattivo, sempre più violento, e le loro litigate finivano in rissa.

Non riusciva a liberarsi della presenza di lei, ossessio- nata da lui, e in fondo in fondo si odiava perché sentiva che senza di lei sarebbe stato un niente. Sarebbe nuova- mente finito a passare stanche giornate di solitudine ance- strale, senza più scopo, senza più meta, e quindi si lasciava inevitabilmente ritrascinare negli abissi di quella relazione malata, morbosa.

Lei gli aveva mostrato i suoi lati deboli e lui ne aveva approfittato; la sua mancanza di personalità faceva sì che lui fosse il suo amante padrone e l’avesse come cosa sua, da lui creata, e la plagiasse a proprio volere. Al contempo, lei aveva scorto le debolezze di lui, la solitudine, il senso

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di vuoto immenso, la depressione e l’alcool, e a queste si appiccicava, facendogli da infermiera e da psicologa, di- cendogli: sei fortunato che hai trovato una donna come me, io per te ci sarò sempre, ti assisterò e ti curerò; le altre son tutte puttane, fanno le corna ai loro uomini, mentre io ti sarò sempre fedele e così, come lei, anche lui era pla- giato, a tal punto da non poter più pensare di vivere senza il calore di quelle rassicuranti forme femminili, per paura di tornare come prima e via così...

Così, così, così il tempo passava, tra litigate, sfuriate, botte, sesso, sesso, sesso, anche quattro volte al giorno... era il modo di sfogarsi, non d’amarsi.

Anche i loro amici non ne potevano più. Assistevano a quei battibecchi furenti, sbuffando con disagio. Poi un giorno, semplicemente, la loro pazzia li portò a decidere di fare un figlio. Una coppia scoppiata, già distrutta, decise di creare una vita assieme.

Ma perché? Si chiese stringendo i denti. Cosa abbiamo avuto per la testa quel maledetto giorno?

Dunque, Sandrina aveva smesso di prendere la pillola. Accadde di marzo. Non ebbe mestruazioni, il test fatto una settimana dopo la mancanza risultò positivo. Un secondo confermò l’esito. I genitori di lui, ovviamente, s’erano in- cazzati come belve. Cominciarono col dire a lei di abortire. Gli amici intanto dicevano che non sarebbe stato intelli- gente, nella situazione in cui gravava il loro rapporto, met- tere al mondo un innocente, ma lui, tra i fumi di scarico della sua mente, stordito più che mai, saltellando di qua e di là, senza meta, non poteva capire neanche questa volta...

I suoi di lei, al contrario, rimasero da subito contenti e dissero Nostra figlia non abortisce! eccetera eccetera... Un giorno, al consultorio, lei cominciò a piangere e a dire con le ostetriche: « Io il mio bimbo lo voglio, dopo mi am-

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mazzo se lo perdo », e le ostetriche a dire: « Non preoc- cuparti, ci siamo qua noi, c’è l’assistenza sociale, c’è il centro aiuto vita, un modo si trova anche se non avete la- voro... ». E il bimbo nacque, in un freddo dicembre. Lei andò a convivere con lui.

Convissero un anno intero tra litigi, urla, botte e mo- menti di profondo amore, sotto le coperte, nel calore del letto matrimoniale, in quella stessa stanza dove stava lui ora, dove stava sempre adesso, a piangersi addosso e a ri- cordare frammenti della loro storia.

Convissero così, e poi un bel giorno lei divenne strana, misteriosa, e Franco infine scoprì che aveva un altro. Ori- gliava conversazioni telefoniche in cui lei diceva, chiusa in una stanza e pensando di non essere udita: « Oh, amore mio della mia vita, ti amo, non vedo l’ora di tornare a stare tra le tue braccia, oh che piacere quando l’abbiamo fatto e tu... » e tutto il resto.

Lei andava a farsi fottere, a farsi dare tra le gambe da lui e poi gli dormiva accanto, nel letto.

La situazione finì una fredda mattina, quando Franco, disperato e mezzo morto, andò a spifferare tutto ai geni- tori di lei, che prontamente se la vennero a prendere, me- nandola e parlando di disonore verso la famiglia e robe varie...

« Ciao a tutti, io vado, ciao amore di mamma, ciao! ».

La sua voce nel corridoio. Se ne stava andando via, fi- nalmente.

Può bastare per oggi, si disse, asciugandosi il muco dal naso e uscendo dalla stanza, diretto al cesso, per buttare i fazzoletti sporchi.

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QUATTRO

Peppi e Rocco s’incontravano sempre alla notte. Giravano ore e ore quella schifosa città, Faenza, la loro Faenza, città d’arte e delle ceramiche, una metropoli

in miniatura tagliata in due dal Lamone e assediata dai piccioni, e giravano, giravano, parlando di cazzate e roba varia. Iniziavano a farlo verso mezzanotte, finito il loro turno.

S’erano incontrati al lavoro, in un fast-food, un’occu- pazione che entrambi odiavano, sempre lì a dover far pa- nini per un branco di truzzetti scimuniti o false famigliole dall’aria felice, i manager scortesi che li trattavano come vomito di cane, qualche collega fissato col principio di nonnismo, e in genere una routine che succhiava loro l’esistenza piano piano.

Il primo aveva i capelli rossi, non era eccessivamente alto ma abbastanza grosso. L’altro aveva gli occhi azzurri, era biondo e molto magro.

« E quindi siamo andati in mezzo al bosco... ».
« In mezzo al bosco? ».
« Ah ciò, come facevamo se no... in casa mia non c’è

un attimo di pace... son sempre tutti lì a rompere i coglioni, cazzo ».

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« Come ti capisco... la vita è una vera rottura di palle... che tristezza... ».

« Dicevo che siamo andati dietro la boscaglia, nel fitto della boscaglia, e io ho tirato fuori il toro, gliel’ho fatto ve- dere, gliel’ho, ce l’avevo così duro che mi sfracassava i gins a momenti, non ne potevo più, credimi, le ho detto prendilo in bocca, le ho detto, e lei allora mi fa qui, adesso? ed io sì, qui, adesso, fanculo la gente, fanculo tutto e tutti, prendimelo in bocca e poi fai il meglio che puoi... ».

« E lei? ».

« Lei me lo ha preso, non se l’è fatto ripetere un’altra volta, e così ci ho dato e lei ha preso, e ci ho dato e lei ha preso e un viavai fino a che... non mi è uscito tutto lo sfogo... ».

« E ha ingoiato? ».
« No, ha voltato la testa e sputato in terra... ».
« Ohhhh, mai una ch’ingoi... ».
« Eh, ma sarà per la prossima volta... ah, eppoi non t’ho

detto quando è passata la truzzetta col cane... ».
« Merda, vi han visti? ».
«Sì, io c’avevo Clemenzio di fuori e lei lo leccava ed

ecco che passa bimbaminchietta col bubi e allora, be’, lei ci guarda... ».

« Minchia che roba pesa... ».

« Sì, abbastanza, allora lei si ferma e rimane lì attonita e io salto su e le faccio, bellezza è abbastanza grosso per soddisfare tutt’eddue! ».

« Minchia che roba pesa... ».
« Abbastanza... ».
« E lei ci è stata? Ci è...? ».
« Be’, ecco, vedi... no, c’è... be’, ecco, lei ha più o meno

specificatamente detto adesso chiamo la polizia ed è scap- pata via correndo... ».

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« Brutta truzzetta, la bestia le ha messo spavento... ». « Minchia, sì che gliel’ha messo... lo spavento intendo ». « Che storie pese che mi narri... ».
« E non t’ho ancora detto di quello che è accaduto dopo

nel cesso... ».
« Che è successo? ».
« Al cesso della stazione, mentre aspettava il suo treno,

ci siamo infogatati nel bagno delle donne, eppoi lì me n’ha fatto un altro dei suoi lavori e poi quando siamo usciti s’è messa a pecorona sul lavabo per lavarsi la bocca ed io al- lora le ho palpato con forza quel suo bel sederotto e a mo- menti non le tiravo giù i calzoni! ».

« Ah... però... che roba pesa... ».
« Abbastanza ».
« E se entrava qualcuno e vi vedeva lì in quegli atteg-

giamenti... ».
« È quello il bello, è quello... ».
« Occhio però, stai tirando un po’ troppo la corda

amico, ecco be’, vedi, così poi lei si sente un oggetto e da darti tutto passa a non darti nulla... ».

« Oh, ma che due! Sempre oggetto si devono sentire quando t’arrapano sessualmente e le vorresti far esplodere il cranio a forza di menate nell’utero o in altri buchi ospi- tali; è la fregatura delle donne, merda, io mica mi sento usato se una o uno mi vuol fare da mattino a sera, anzi, ne sarei estremamente lusingato! ».

« Eh, ma allora perché si parla di gentilsesso... comun- que non tirare troppo la corda, sei stato fortunato a trovare una brava ragazza, tientela stretta e non sottovalutarla, mi pare una tipa intelligente... ».

« Ma che due! Se ne ho voglia ci vado, quando poi lei rompe la mando a quel paese e tanti saluti, morto un papa se ne fa un altro... ».

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« È proprio questa la cosa brutta, in questo modo la società continuerà ad essere una manica di pecoroni senza senso, è questa la cosa brutta... minchia... ».

Tutto questo mentre continuavano giù per i vicoli, quelli un po’ oscuri come piaceva a loro, gente col deside- rio d’essere della strada per fuggire alle proprie esistenze segnate, per cercare la chiave che potesse aprire le loro ma- nette. Ma non che fossero eroi vagabondi dei libri o delle ballate hobo, con la possibilità o il semplice coraggio di mandare tutto al diavolo e cercar fortuna altrove. Erano due tipi lì. Peppi, che scopava nei parchi, tutto sommato era felice, pur se pieno d’astio per via di una famiglia troppo oppressiva. Rocco navigava verso cosa non sapeva, anche se ci provava; a volte partiva già sconfitto, altre si metteva a guardare il muro e ad aspettare.

Tornarono indietro, uscendo dal settore industriale, e si diressero verso il centro. Quella consueta escursione not- turna per le vie faentine costituiva l’unico momento in cui accettavano Faenza, senza coglioni in giro, senza pecorelle idiote, conformi al sistema.

Un paio di sere prima avevano costeggiato il cimitero dall’alto, imbucando un sentierino campagnolo a sinistra dell’entrata laterale. Era stata una delle loro serate migliori. A loro piacevano i cimiteri. Erano attirati dai cimiteri. Li consideravano luoghi rilassanti dove regnava la pace eterna in ogni senso. Il cimitero era il luogo dove solita- mente si rifugiavano per fuggire al caos e alla gente che parlava, rideva, urlava... Nei cimiteri erano tutti così zitti, tutti così rispettosi. La gente non la trovavi mai così ri- spettosa in nessun altro luogo. Forse in chiesa, certo, ma loro non andavano in chiesa.

Il cimitero era un luogo importante soprattutto per Rocco. Lui era stato infatti affossato in una sorta di de-

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pressione che l’aveva portato al centro di salute mentale, lì a Faenza. Era stato in cura vari mesi, facendo flebo e prendendo medicinali. Ricordava i pianti di sua madre, nella stanza accanto, mentre lui dormiva, intontito sul di- vano, il sonno dei farmaci.

Aveva tentato il suicidio qualche volta. Un giorno, pro- prio una passeggiata al cimitero era riuscita a farlo uscire dal tunnel. Aveva visto tante tombe di bambini o ragazzi giovani; vite spezzate nel fiorire degli anni e alcune a cui nemmeno era stata data una possibilità. Da quel momento l’aveva piantata con le cure, coi farmaci e con le flebo e si era infilato al fast-food per guadagnare qualcosa. Per que- sto motivo la sera del giro sopra al cimitero fu per lui la migliore. L’avevano costeggiato dall’alto, passando per i campi. Volgendosi a guardar giù, aveva scorto una distesa uniforme di lucine, nel buio ottenebrante della sera d’au- tunno. L’atmosfera gli era parsa magica. Il sentiero cam- pagnolo con quelle luci là sotto, con le canne di bambù, col fiumiciattolo alla sua sinistra. Tutto era stato così perfetto, giusto al momento giusto con la persona giusta, Peppi. Solo con un grande amico puoi capire certe cose, e rin- graziava Peppi.

Lo ringraziava per averlo fatto tornare indietro nel tempo, ai giorni della sua infanzia, quando girava in bici- cletta il suo vecchio paese, bambino, insieme al suo primo amico. Continuando per il sentiero, i suoi occhi avevano poi visto la distesa di lucine finire, per lasciare il posto alla buona vecchia campagna d’ottobre. Era tutta imbrinata, bella, così triste. Era come quelle donne che quando le hai sotto le guardi un attimo in viso, proprio al centro degli occhi, e dici: minchia se è bella, ed è mia. Ed anche la campagna quella sera era sua.

Gli venne in mente anche la zona pesca, con tanti la-

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ghetti e il grande acquedotto con quel sinistro basso di morte. Poi i campi erano terminati e, dopo due chilometri di marcia, lui e Peppi avevano scoperto un nuovo posto di Faenza. Che avventura quella sera...

Raggiunsero il centro della città che erano quasi le due. S’infilarono nel giardino di certi tizi con una signora casa, e rimasero a fissare le biciclette, quelle grandi per gli adulti e quelle piccole per i bimbi. Era divertente e allo stesso tempo istruttivo penetrare nei giardini e nei cortili. Era uno studio sull’essere umano. Quegli spazi privati erano pro- prio quasi tutti uguali: c’erano i vasi coi fiorellini, c’era chi aveva l’amaca o l’altalena o il dondolo, la bicicletta ap- poggiata al muro dell’abitazione, il capanno, qualche sedia, il tavolino, sempre così. Era inquietante per certi versi.

Sorpassarono le biciclette e s’infilarono in un pertugio tra una capannina e un gazebo. Si diressero verso uno sten- dino.

« Guarda bon Peppi, diocristo, un reggiseno di pizzo, nero, chissà com’è la tipa che l’indossa, per me è gnocca, è pisellabile, cristo... ».

« Già, bella fica, ohhhhhhhhh, guarda qua la nostra fica che regalo ci ha fatto ».

Prese in mano un perizoma.
« Oooooh, interessante... » disse, sfregandosi le mani. « Si abbina al reggiseno, ragazzi, questa per me de-

v’essere una strafiga assurda, sì... » disse Peppi, mentre li- sciava con la mano sinistra il perizoma, immaginandosi cose furbette.

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Iniziò a dare voce ai suoi pensieri.

« Ma te l’immagini questo filo sacro che le passa tra le chiappe del suo bel culo, rotondo, come nelle pubblicità delle mutande; mi fa venir voglia di sbatterla per terra una così e darci dentro fino a prova contraria... e t’immagini

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prenderla tra le braccia e stringerla, sentire i suoi seni grossi e gonfi, dirle pupa, adesso amiamoci di peso nella notte e facciamolo qui, per terra, proprio qui, sul- l’asfalto ».

« Su quest’asfalto maledetto, di questo cortile male- detto, di questa casa maledetta, di questa gente maledetta, eccheccaspio! » finì per lui Rocco.

« Ho un’idea, facciamole un regalo alla pupa, così do- mattina quando viene a prendere il suo bel perizoma si bagna un po’ toccando il nostro calore... ».

« Mi sembra una buona idea, Peppi, ho difatti un certo bisogno ».

« E allora forza ».

A turno andarono col perizoma dietro la capannina e scaricarono la loro passione. Alla fine Peppi mise il peri- zoma sozzo al suo posto. I due amici si voltarono e, ri- dendo, si fecero inghiottire dal buio della notte.

Altra casa, altro giardino, altro giro di valzer, più o meno la stessa storia: una bella casa grande a due piani, il giardino un po’ angusto dove, stipati, stavano i classici cli- ché, l’immancabile bicicletta appoggiata al muro e la ca- pannina e i vasi di fiori.

Peppi prese la bici e la mise davanti alla porta d’ingresso.

« Così domattina il pecorone quando si sveglia... yawn, apre la porta, si piglia assonnato un colpo per la bici che sfracarassa per terra! ».

Uscirono. Lì vicino c’era una casa il cui giardinetto ospitava gli immancabili giochi per bimbi. Si fermarono all’improvviso ad osservare un atipico spiazzo di terreno, con al centro un albero stile palude, coi rami bitorzoluti ad uncino e le cornacchie sopra appollaiate.

« Bello, questa è una cosa caratteristica che tanto mi piace » disse Peppi, guardando fisso l’albero.

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« Bello Peppi, se non ci fosse questa dannata fanghiglia potevamo entrare e star sotto l’albero, magari sederci e parlare fino a mattino e poi guarda, laggiù in fondo, c’è un capannino tutto sdrucciolo, inquietante ma invitante ».

Rocco indicò all’amico il capannino in questione.

« Sì, è interessante in effetti, chissà cosa ci tengono dentro, è tutto lì, mezzo distrutto, molto oscuro, chissà cosa c’è dentro, mi sarebbe proprio piaciuto saperlo... ».

Stettero un altro po’ a guardare il capannino oscuro, in silenzio. Dopo si rimisero in viaggio.

Erano le due e tre quarti ormai, e passarono dal parco Gatti. Videro un centro ricreativo di cui non erano a cono- scenza, un po’ inquietante perché c’era una carrozzina da- vanti all’ingresso. Era lì che aspettava triste, e ai due amici parve di sentirla piangere.

Proseguirono e passarono davanti all’abitazione di Gimmi. A Rocco vennero in mente, all’improvviso, tutte le serate passate a fumare e a dire cavolate su quel grande terrazzone. C’erano Marco e un tizio di nome Seba, ma questi non li conosceva bene. Lui ci andava per Franco, il suo vecchio compagno di scuola. Erano inseparabili durante il periodo delle superiori, poi si erano persi. Fi- nita la scuola, infatti, Franco aveva preso a frequentare quella gente che a lui non andava troppo a genio. So- prattutto quell’altra sua grande amica, una certa Clara, truzzissima fino alla punta dei piedi. Franco ormai era perso. Lui aveva sentito dire in giro che gli era nato un bimbo, assurdo, quando andavano a scuola era il vergi- nello della classe... Erano poco più di tre anni che non lo vedeva...

Oltrepassarono la casa di Gimmi e s’infilarono nel parco Gatti. Passarono in mezzo a un boschetto e a una selva d’arbusti e foglie, intricati a mo’ di capannina.

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« Oh Rocco, ma te lo immagini qua portarci una tipa e farci cose turche? ».

« Ohhh sì, cavoli, è proprio da fare. Ci pigliamo una di quelle tipe dal liceo, tutte linde e pinte, quelle colla puzza sotto al naso, e le facciamo vedere noi come si fa, la por- tiamo qua in mezzo e la sverghiamo di peso, le spiselliamo nella baggiana a quella... ».

« Ma di brutto poi, tanto non ci vede mica nessuno qua... ».

« Sì sì sì, adesso uno di ‘sti giorni è da fare... ».

Vaneggiando così, coi loro deliri al sapore alcolico, i due si fecero tutto il parco. Arrivarono in una sorta di quar- tiere residenziale, con una bella villona che, ovviamente, attirò la loro attenzione.

La villa aveva muri rossi, a tre piani, e stava al centro di un grande giardino circondato da un basso cancello, fa- cilmente scavalcabile.

« Ohi Peppi, la puzza di ‘sta villa fa morir di tanfo! ». « Puoi ben dirlo amico! ».
Peppi era già nel cortile e lo intimava a seguirlo.
« Oh, guarda, eccole là le bici e tutti i vasi di fiori, que-

sti vasi di fiori del cavolo, non li posso più vedere, mi dan nausea, sto per vomitare! ».

Detto questo, Peppi si tirò giù i calzoni e pisciò dentro al vaso più grande. Rocco ne seguì l’esempio, sputandoci anche.

Davanti alla porta d’ingresso c’era una pedana con scritto sopra “Welcome”. Rocco sputò pure sopra a quella, poi la prese e la sassò via. Cominciò a ridere come un matto, vedendo Peppi che afferrava i vasi e li portava in mezzo alla strada. Ne prese uno pure lui e lo scagliò con- tro il muro della villa. Il vaso s’infranse in mille pezzi e i due amici s’accorsero d’aver fatto troppo casino.

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Rubarono quindi una bici a testa e si tuffarono fuori dal giardino, mentre le finestre della villa si coloravano di giallo. Via, via, veloci nella notte per non essere visti, svol- tarono in una via secondaria e, al centro di essa, si ferma- rono a riprendere fiato.

« Boh Rocco, sembra come quella sera, quando siamo entrati all’asilo e abbiamo fottuto le biciclettine e i tricicli che poi abbiam scaraventato nel fosso, ricordi? ».

Rocco si ricordava eccome.

« Sì, è stato la stessa sera in cui poi siamo andati al ci- mitero degli inglesi! ».

« Sì, vero, bellissimo quel cimitero, è veramente tenuto con cura, erba tutta tagliata perfettamente, tutto in ordine, pulito... ».

Peppi scossò la testa, ritornando a quel giorno. Un lampo gli illuminò d’improvviso gli occhi. « Oh Rocco, cacchio, ma poi ti ricordi quella volta quando abbiamo fatto paura a quei due idioti, quella coppietta di imbecilli, ahahahah, che era andata lì ad amoreggiare! ».

Rocco cominciò a sghignazzare, portandosi una mano alla bocca.

« Ahahahaahah, sì, è verissimo, è stato quando abbiamo circumnavigato il cimitero dai campi e siamo finiti dietro al cancello sul retro, dove appunto ci stavano i due bimbi- minchia idioti ad amoreggiare, ci siamo nascosti e poi ab- biamo cacciato un grido pazzesco! ».

« Già, e quei due sono corsi via alla lepre, senza voltarsi indietro! ».

Peppi smise d’improvviso di ridere, ricordando un’altra cosa. « Però gli è stato bene, ciò ma ricordi, erano gli stessi che avevano scritto sul registro quel mucchio di cazzate! ».

« Sì, è vero, che stupidi bastardi, ce ne sono tanti così, che pigliano il registro all’entrata e poi scrivono porcate

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tipo “sukkiminkia” e altre sciocchezze, mentre la gente seppellita lì ha combattuto con onore in guerra e per quel- l’onore c’è morta... gente che aveva la loro età... quei per- digiorno bastardi... ».

« Be’, Rocchino, per questo li odiamo tutti, no? La de- generazione truzza... ».

Il pericolo era passato, gettarono le biciclette lì in mezzo alla via e proseguirono a piedi. Passarono davanti Mani- tese, la discarica. Camminarono un altro po’ in silenzio ed ecco che ormai era già mattino. Il cielo si stava rischia- rando, preavviso dell’alba che sarebbe giunta tra un’oretta scarsa.

Passarono per qualche vicolo, diretti alla casa del bon Peppi. Dal fondo della strada un gruppo di stranieri urlò loro contro, nella loro lingua.

« E se arrivano e col coltello ci rubano i soldi, io in tasca ho i soldi prelevati al bancomat, sono qualche centinaio, che roba pesa... » disse Rocco.

« Abbastanza, ma se noi facciamo finta di essere come loro, iniziamo a parlare con accento straniero un italiano contraffatto e a dire tu derubba me che noi tutta notte in giro per rubba e far soldi che noi avanzi galeotti comme vvvoi noi derubba vvvoi e altre minchiate così, insomma fare i tronfi, i sicuri come loro, be’ vedrai che non ci fanno nulla, altrimenti se ci fanno saranno robe pese... » rispose Peppi, sicuro di ciò che aveva detto, battendosi il petto.

« Bah, speriamo... ».

Rocco si guardò alle spalle. I tizi erano un gruppetto considerevole, alzavano le braccia e urlavano. Ma no, alla fine non vennero, rimasero ad urlargli contro dal fondo della via.

« E comunque preferisco loro a quelli che derubano sot- tobanco senza far saper nulla a nessuno o anche solo la fal-

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sità di due persone che si salutano e in realtà poi si dicono alle spalle » esclamò Rocco.

Peppi annuì.

Oltrepassarono la ferrovia, la buona vecchia sgarrup- pata ferrovia. Ammirarono la tristezza di tutte quelle case accatastate nei grandi palazzi senza umanità, quella gente che viveva come ratti nella grande fognatura urbana.

« Questa città, quando la giro di giorno, me la faccio fissando l’asfalto, perché solo così riesco a sopportare tutte quelle macchiette senza identità e false che la popolano. Sai, come quegli stronzi di merda finti, o quelle scuregge degli scureggioni, quei cosi gonfi d’aria, di plastica, che si mettono sulle sedie, e quando poi uno ci si siede PA- TRRRROOOOONNNNZZZZ, parte la sbronzatomica, che tristezza... » disse Rocco, all’improvviso.

Mentre si stavano dirigendo alla volta della casa del Peppi, sopraggiunse alle loro narici l’odore del pane e suoi derivati che cuocevano nel forno non ancora aperto. Quel- l’odore fece loro capire che tutto sommato non era tutto perduto, non era tutto così vano. Si figurarono il fornaio che se ne stava là, tutto sudato, ma al sicuro, al tepore del forno a fare e infornare il pane e i biscotti.

Ed era bello, cacchio, era tutto così bello, perché era un odore che sapeva di malinconia, di tempi andati, di quel qualcosa che ancora riesce a farti dire: non tutto è perduto, stringi i denti e via, sei qui, col tuo migliore amico...

E adesso seguivano quell’odore coi nasi per aria. Vole- vano sapere da dove arrivasse.

Girarono il quartiere in lungo e in largo. Passarono da- vanti a tre tizi che stavano uscendo, insieme a una prosti- tuta, da un edificio malmesso. Li guardarono salire tutti in macchina per riportarla sulla strada.

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« ‘sta bella mignottona che stasera s’è fatta un’orgia con tre grossi uomini... chissà le cose porche che avran fatto! » disse Peppi, mentre l’odore si stava facendo ad un tratto più forte.

Ed eccolo là, il fornaio, paradiso dorato in contrasto col grigiume dei vicoli, dei puttanieri e delle loro puttane, dei palazzi case di ratti, come una donna di speranza che balla in strada in mezzo alla tristezza.

Eccolo il loro fornaio. Oddio che odore!

Stavano davanti alla porta e guardavano le luci dentro e sapevano già tutto.

« Tutto ciò è bellissimo, bon Peppi! ».
« Già amico mio, già ».
Alle loro spalle, graffiti osceni sui muri che circonda-

vano il parco dei graffitari, che portava al sottopassaggio, che passava sotto alla ferrovia. Lì si concentrava la mag- gior parte dell’arte underground faentina, quei grossi peni che eiaculavano, quelle scritte tipo Tutti gay Ti voglio fottere, esseri abnormi dalle grandi vagine come bocche aperte, animali urlanti, simbolo della disperazione e del- l’alienazione urbana, in alto lo stendardo della sofferenza metropolitana!

Poi iniziò ad albeggiare e i due amici si ricordarono che a mezzogiorno dovevano essere a quella merda di lavoro e un po’ bisognava dormire. Quindi lasciarono a malin- cuore la bottega e quell’odore. Da lì a un’ora il negozio avrebbe aperto e la gente sarebbe giunta a contaminarlo e a togliergli ogni briciolo di poesia e speranza...

... Ma per ora Peppe e Rocco potevano ancora sognare, notte non finire...

Aspettando il cielo

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CINQUE

Marco prese la mira e sparò. Nonostante la sua esile figura, reggeva con forza il grosso revolver.
« Dritto nelle palle! ».
La sagoma di legno si mosse con un leggero scossone e

poi tornò immobile. Un buffetto di fumo s’alzò dal centro delle gambe disegnate, lasciando intravedere un bel foro, particolarmente visibile anche a dieci metri di distanza.

Marco si voltò verso l’amico che a bocca larga gli stava al fianco.

« Hai visto Franco, eh? Mica male, bacia bene questa bambina! ».

Franco protese la mano destra. « Dammi qua va’, e smettila di sborartela! ».

« Bene, tira te allora, dai, voglio proprio vedere! ».

La .44 passò dalla mano ferma ed esperta di Marco a quella un poco tremante di Franco, che si mise in posi- zione di tiro o almeno ci provò.

« Ohi Franco, è sbagliata la posizione, non vedi che stai puntando la canna in giù, dove vuoi tirare, per terra? Tie- nila su.... ».

« Eh, ma non vedo, diocristo, non ci vedo mica bene, ma porca.... ».

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Gianluigi Valgimigli

BOOOOOOM!....

Il colpo partì all’improvviso e, nonostante tutto, non finì per terra. Certo, non s’avvicinò minimamente al ber- saglio, però intanto seguì una traiettoria quasi dritta prima di finire contro il muro e tornare indietro, fischiando peri- colosamente alla destra del tiratore.

« Bene, la prossima volta cerca di colpirti in pieno! » disse Marco sghignazzando.

« La prossima volta cerco di spararti in un piede, im- becille! » rispose Franco poggiando l’arma sul tavolino alla sua sinistra, dove i raggi del sole facevano luccicare i proiettili, sistemati alla rinfusa in una scatola di cartone.

« Tuo babbo cosa dice di bello? » esclamò all’improv- viso Franco, ricordando che erano passati giorni dall’ul- tima volta che aveva avuto notizie di Pietro.

« Ah boh, non lo vedo dalla sera della cena a casa sua! ».

« Come, non lo hai più visto dalla cena? Ma non ci vai a trovarlo? ».

La sera della cena era passata da almeno una settimana. Si erano ritrovati tutti, Marco, Franco e i loro amici, nella nuova casa di Pietro per festeggiare il suo compleanno.

« Ciò Franco, lo sai qua come va la baracca, no? Ap- pena metto il muso fuori di casa c’è quella là che si piazza alla finestra e inizia a tempestarmi di domande e a dire Vai da lui? Perché vai da quell’idiota? ».

« Ah, giusto... è gelosa marcia, eh? ».
« Diobò! ».
La gelosa in questione era la madre di Marco. Era una

storia vecchia, partita anni fa, quando i coniugi Valle si erano imbarcati in quel progetto riguardante la realizza- zione del loro più grande sogno: la splendida villa in cam- pagna, la Villa dei Sogni.

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« Bah » riprese Marco, « siamo fortunati se possiamo ancora permetterci di avere un tetto sopra alla testa, e se posso ancora invitarti qui, a sparare insieme! ».

Sì, pensò Franco, nonostante tutto i due amici potevano ancora passare i pomeriggi sparando con la pistola nel pic- colo poligono che Pietro, appassionato d’armi, aveva eretto anni prima, quando non mancavano l’iniziativa e la voglia di sorridere. Certo che lo spettro della madre sem- pre presente, però... Franco alzò il capo, verso la grande fi- nestra al secondo piano della villa, per accertarsi che la madre di Marco non fosse in ascolto, poi riattaccò di- scorso.

« Marco, amico mio, tu stai buttando via la tua vita ap- presso a quella, è pazza, non vedi? Non è più tua madre, anche l’altro giorno mi hanno detto che l’hanno vista in un bar di Faenza a bere! ».

« Lo so, e allora che devo fare, eh? Lasciarla morire così? Questo devo fare? E poi i sensi di colpa chi me li cava, eh? Vaffanculo, non sta più mangiando... trenta chili s’è ridotta, un fantasma... dimmi cosa devo fare! ».

« Ma... almeno smettila di darle i tuoi soldi. Quella si piglia lo stipendio e se lo mangia in due settimane, dove cazzo li piazza ‘sti soldi? ».

« E che ne so... ha più importanza? Non ha più impor- tanza nulla, ci stiamo morendo tutti, non vedi? Siamo già con un piede nella fossa e ancora non ce ne siamo accorti... finirà male, quindi non ha importanza, glieli do invece i miei soldi, così almeno passa i suoi ultimi giorni facendo ciò che vuole e al diavolo tutto... ».

« E per la casa s’è fatto vivo qualcuno, almeno? ».

« Ma va’ là, chi cazzo vuoi che se la pigli ‘na casa in culo al mondo! Andrà all’asta, andrà, la banca un bel giorno de- ciderà di piazzarla all’asta e buonanotte al secchio! ».

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Gianluigi Valgimigli

Così dunque sarebbe finita... pensava Franco mentre si voltava a guardare il sole morire sul fiume, là in fondo, dove una famiglia un tempo felice passeggiava a ridosso del fosso, Pietro con l’armonica, sua moglie che batteva il palmo sul tamburello gitano e Marco che li seguiva pen- sando alla ragazza incontrata nel corridoio della scuola, ai suoi capelli biondi e al culo che aveva, che pareva par- lasse...

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SEI

Rocco timbrò il cartellino d’uscita e si diresse agli spogliatoi.
Uffffff che giornata snervante pensò mentre si slacciava

i calzoni, Peppi oggi s’è proprio salvato.
C’era stato un afflusso di gente da mani nei capelli. En-

travano continuamente, anche a gruppi di cinque o sei. Sta- vano tutti lì, i bastardi, in fila, come una classe delle elementari, ad aspettare il loro stupido panino di tendenza. Lui, di là in cucina, sommerso di ordini, tutto sudato e con le mani lorde di salsa. Ah, quella dannata salsa schifosa! T’impuzzoliva le mani e il puzzo non si cavava più. Tutte le volte che gli capitava d’avvicinare una mano al volto, ecco, il puzzo gli ricordava la sua condanna. Gli ricordava che lui era proprietà del fast-food.

Finì di cambiarsi e uscì dallo spogliatoio, diretto alla sala principale.

E poi i manager, i manager, come l’avevano maltrat- tato oggi! Se ne stavano lì alla finestra dello studiolo ad urlargli imprecazioni contro. E muoviti, sei lento, e guarda quanta gente, quel panino fa schifo...

Ma che s’andassero un po’ affanculo!
Nella sala principale l’afflusso di gente s’era un po’

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Gianluigi Valgimigli

sedato. La fila, perlomeno, non usciva dalla porta d’en- trata.

Troppa gente comunque per fermarsi a mangiare, pensò, mi andrò a casa va’!

Stefania gli passò di fianco.
« Ohi Ste’, cominci adesso? ».
« Ohi Roc, sì, bello schifo, ma ti rendi conto? Quanta

cavolo di gente! ».
« Dovevi vedere prima, amica mia, dovevi vedere

prima... è quasi niente, adesso... ».
« Bello schifo, va be’, vado alla guerra allora, già oggi

una mattinata d’inferno all’università, che anche lì son ma- roni con tutto quello studio, speriamo almeno serva a qual- cosa... ».

« Massì, sei una brava ragazza tu, intelligente, vedrai che quest’anno ti laurei di sicuro! ».

« Speriamo, boh, ti saluto, ci becchiamo presto che ma- gari ci facciamo una bevutina assieme... ».

« Ohi, perché no? Ciao e buona battaglia! ».

Stefania scomparve, inghiottita da una massa di per- sone.

Brava ragazza, quest’anno ce la fa, oh se ce la fa, pensò Rocco, scostando due ragazzi per passare.

Mentre si dirigeva caracollando verso l’uscita, gli parve di vedere una persona conosciuta. Anzi, un gruppetto di persone conosciute, ma quello che gli interessava era uno soltanto.

Era lui, non poteva sbagliare.
« Ohi, ciao Franco! ».
Franco si voltò all’improvviso, interrompendo il di-

scorso con Marco e Gimmi. In piedi, davanti a lui, c’era il suo vecchio amico Rocco.

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« Ohi, Rocco, bello, come va? ».

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« Mmh... insomma, dai, potrebbe andare meglio, e te? ».

« Be’... » Franco si guardò un attimo le scarpe prima di rispondere, « ...diciamo uguale! ».

« Ma come uguale? Mi hanno detto che t’è nato un bim- betto, è un’ottima cosa, no? Dovrebbe andarti bene... ».

Nel dire questo Rocco guardava il vecchio amico dritto negli occhi. Occhi neri come la pece. C’era, in effetti, qual- cosa che non andava... difatti se lo ricordava ben messo, con le spalle larghe... mentre quello che gli stava davanti era uno spettro, in confronto.

Franco si voltò verso Marco e Gimmi.
« Ohi raga, ve lo ricordate il mio vecchio amico? ». Se lo ricordavano.
Ci fu uno scambio di saluti disinteressato, poco con-

vinto. Rocco circondò col braccio destro le spalle di Franco. « Dai Franchi’, vieni fuori che t’offro una siga, così mi racconti che minchia hai fatto in ‘sti anni! ».

Fuori faceva freddo, si sentiva tutta la stagione. Sta- vano andando contro l’inverno. Il fumo delle sigarette creava dense nubi al sapor di tabacco, sopra le loro teste.

« E così tu lavori qua adesso, eh? » esordì Franco.

« A quanto pare... un bello schifo... ma avevo bisogno di soldi... ».

Rocco decise di evitare tutta la trafila che l’aveva por- tato a cercare lavoro, il periodo di depressione insensata e tutto il resto.

« Allora Franchi’, dimmi su, ti ho visto negli occhi, c’è un bello spessore di buio... ti sei rinsecchito un vallo... ».

Prima di rispondere Franco si voltò a guardare un punto imprecisato alla sua destra.

« Rocco, amico mio, è stato tutto sbagliato, tutto buttato via per niente, solo per avere in cambio il male, quel male che ti brucia dentro e ti uccide... ».

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A quelle parole Rocco s’accorse che l’amico stava pas- sando più o meno quello che aveva passato lui l’anno prima. Una grande tristezza, abissale, un senso di vuoto che ti divora internamente.

« Franchi’, ma il bimbo... cioè, non ho capito, cerca d’essere più chiaro... ».

Franco gli raccontò tutta la storia, per filo e per segno.

« Ma... che carina però... okey, avrete sbagliato en- trambi, ma lei di più... » fu il primo commento di Rocco, alla fine del racconto.

« Non lo so, amico, vedi, quello anche mi uccide, il pensiero che forse, in fondo, la buona fetta grossa della colpa ce l’ho io, perché, vedi, in fondo che cosa me ne fre- gava se lei aveva gli impegni con la famiglia e doveva fare sempre i suoi doveri di signorina casalinga, insomma, me la facevo lo stesso, no? ». 

Rocco scosse la testa e lo fissò con espressione pene- trante.

« Ci andavo a letto lo stesso, questo doveva importarmi, cazzo, solo questo, di fotterla, perché sono giovane, e do- vrei solo chiavare a quest’età, chiavare e basta, invece ho dovuto giocare a fare già l’uomo di casa e quindi a pensare a quella cavolata della famiglia con lei, e da lì l’errore pro- fondo del bambino, perché se il bambino c’è può solo es- sere colpa mia e basta, siccome lei una volontà propria non l’ha mai avuta e faceva quello che le dicevo io ». Fece una pausa. Rocco rivolse un istante lo sguardo a terra, ma non disse niente.

« Ma al diavolo, è stato tutto sbagliato, tutto buttato via, che schifo, che schifooooo... e pensare che s’è anche rovi- nata, finendo incinta, lo sai che la gravidanza rovina le donne, no? Lei aveva la pancia perfettamente piatta, era magra, era carina fisicamente, era magra con la quinta di

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tette, ma poi, al diavolo, le sono venute quelle cicatrici sul ventre, e non se ne andranno mai più, e... cacchio, poi prima di finire incinta aveva una gran voglia di scopare, era piccante, era sempre lì pronta a dire che mi voleva, mentre dopo la gravidanza era diventata un pezzo di legno, non aveva più voglia di chiavare, mi rifiutava. Al diavolo, le è tornata la voglia quando s’è trovata quello là, capisci amico, è terribile, vuol dire che le donne, dopo aver fatto un figlio con uno, perdono la voglia di farsi scopare dal padre del bimbo, e cercano nuove emozioni da altri uo- mini, il mondo va così... ».

Finito il delirio, Franco gettò il mozzicone a terra, non lo schiacciò e rimase a guardarlo spegnersi.

« Scusami tanto » intervenne Rocco, « ma non hai tro- vato qualcosa che ti tiri su? Devi trovare qualcosa per uscirne... ».

« Sì, sto andando su in montagna, a un rifugio, di un mio amico. Lassù sto bene, mi aiuta, siamo fratelli nel do- lore... ».

« Oh Franchi’, bene, dai, continua ad andar lassù se è quello che ti fa star bene, vedrai che prima o poi inizi a fregartene di tutto... ».

Ci fu un breve intermezzo di silenzio in cui si abban- donarono ai loro pensieri, poi Rocco riprese il discorso.

« ‘Scolta Franchi’, perché una di ‘ste sere non te ne vieni in giro con me e il mio collega di lavoro, il bon Peppi? Ci divertiamo, andiamo a farle pese, ci sfoghiamo un po’... ».

Franco alzò la testa, interessato alla cosa.
« Farle pese? Che vuol dire...? ».
« Be’ Franchi’, vuol dire che c’infiliamo nelle case di

queste pecore idiote che pascolano per la nostra città, e poi gli diamo il benservito... ».

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« Che intendi? Il benservito per cosa? ».

« Ma come per cosa? Non li vedi? Sono gli stessi che vengono qua a mangiare, pecoroni e basta, è il popolo ita- liano, capito? Io e Peppi ci siamo rotti, rotti dentro, ‘sta gente tutta vuota e uguale, che segue le mode, truzzetti e bimbiminchia, false famigliole che vogliono far vedere in giro la loro falsa felicità, uomini di mezza età che girano col Suv e dicono poi che l’Italia è in crisi, hanno la puzza sotto il naso ».

« ‘Spetta, spetta un attimo ».

« Ma sì, Franchi’, c’infiliamo nelle loro case e poi gliela facciamo vedere, distruggiamo, protestiamo e... ».

« ...E pensi che questo sia il modo? » lo interruppe Franco, « pensi così di risolvere le cose? E soprattutto, cosa vuoi risolvere precisamente? Non sta mica in piedi quello che dici... ».

Nel sentire la risposta di Franco, gli occhi di Rocco si sbarrarono.

« Come Franchi’, quindi mi stai dicendo che sei con- tento di tutto questo e che il sistema funziona bene? Ma guardali, non ti fanno venir rabbia? Non ti viene una gran rabbia guardandoli, quelli? C’hanno la casina perfetta, le stesse cose, tutte le stesse cose nel giardino, tutti seguono le mode, tutti... sono stupidi, stupidi... ».

« E quindi il modo di porre fine alla loro stupidità sa- rebbe quello di fare del vandalismo in casa loro? E poi, es- senzialmente, a te cosa importa di quello che fanno o non fanno quelli là, penso che tu vivi lo stesso... è ovvio che la situazione generale qua non funziona, ma non sarete certo te e il tuo amico, col vostro vandalismo, ad accomodare le cose... e poi quello che dici mi pare non abbia un senso lo- gico, o perlomeno abbia varie cosine che non filano quà e là. Be’, essenzialmente io sono uno stupido e di queste

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cose non ci capisco nulla, e un discorso preciso non te lo so fare, ma mi sembra che tu stai scadendo un po’ in quello che chiamano qualunquismo! Sì, insomma, la società, guardando a come gira, va giustamente criticata, ma an- cora ci sarà poi qualche aspetto positivo rimasto, no? Se proprio tutto è schifo, tutto è male... facciamo un olocau- sto di massa allora! Bah! Comunque, posso solo dirti che ci sono varie teorie in proposito su come finirà questa cosa che l’Italia lamenta, c’è chi dice anche che sia il lavaggio del cervello che ci fa il governo e... ».

Rocco lo interruppe.

« ...Di quello appunto parlo, del lavaggio del cervello, che... ».

« Rocco, ma... puttana miseria, fregatene e vivi tran- quillo, te che puoi, che c’hai che non va, che c’hai? Cosa c’è? Guarda me, che sono in manette a vita, te sei libero, va’ e vivi, il problema non esiste, va’ e smetti con queste cavolate, che un giorno poi ti sgamano e la tua vita, allora sì, che andrà male... ».

Se c’era qualcosa che non andava nel suo discorso, Rocco avvertì che anche in quello che diceva Franco non tutto tornava.

« Okey, io posso andare e vivere tranquillo, e fotter- mene, probabilmente hai ragione, ma tu, perché saresti in manette? Perché hai fatto un figlio con una scemetta? Per quello sei in manette? Intanto il figlio non ce l’hai tu sul groppo, mica lo mantieni tu, no? Ce l’hanno i tuoi, nessuno t’impedisce di pigliar su e andare a scopare con altre mille donne, invece tu te ne stai qui a piangerti addosso... ».

D’un tratto un leggero sorriso si dipinse sul suo volto.

« Oh mio dio, Franchi’, ma ci stiamo facendo da psi- cologi, l’uno con l’altro, siamo due matti con evidenti pro- blemi psicologici che si fanno da psicologi... ».

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Gianluigi Valgimigli

Franco si mise a ridere.

« Eh, hai ragione, in effetti parrebbe proprio così... co- munque, Rocco, tu sei una persona buona fondamental- mente, io ti conosco da anni, sei un poeta, trovi la poesia semplicemente guardandoti attorno, ti ricordi quando, a scuola, guardavi fuori dalla finestra e dicevi quanto fosse malinconica la vecchia stazione ad ottobre, stavi ore a guardarla, e poi, dal nulla, tiravi fuori il discorso sulla tua infanzia e iniziavi a parlare di quando giocavi da bambino nel tuo paesello natale, ricordi? ».

« Certo che mi ricordo... ».

« E allora... basta con quelle spedizioni notturne che non portano a nulla, basta, tu hai una grande rabbia dentro, okey, devi sfogarti, okey, ma lo fai difendendo una causa che fa acqua da tutte le parti, o forse non è la causa... è il modo... sai cosa dice Pietro, il mio amico del rifugio? ».

« Ma Pietro non è il babbo di Marco? ».

« Sì sì è lui, comunque, dice che dobbiamo prepa- rarci alla rivoluzione, quando verrà, questa è la sua teo- ria; dice che un giorno la gente semplicemente impazzirà e allora inizierà una grande rivoluzione e an- dranno al governo e tireranno giù i grandi capi, e tutto il resto... ».

« Mah, non so Franchi’, mi sa che nessuno ne avrà mai il coraggio, non ci credo troppo... ».

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Marco e Gimmi uscirono dal fast food.

« Ohi Franco, noi abbiamo mangiato, eh? Porto a casa Gimmi poi mi vado a casa, se no sai che quella là può pen- sare male... » disse Marco, alzando il braccio per salutare. Salirono in auto e se ne andarono.

Franco e Rocco stettero a guardare la macchina, in si- lenzio, finché la notte non la inghiottì.

Franco scosse la testa.

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« Povero Marco, ha problemi a casa, la madre è tipo ammattita, i suoi si sono separati e lui deve essere a casa presto se no la madre pensa, gelosa com’è, che sia andato a trovare il padre e quindi può combinargli casini... ».

« Ma che mi dici, Franchi’? Poveraccio, mi dispiace... ».

« Sì, non se la passa bene per niente, è giù parecchio, molto nervoso e cupo... ».

« Boh, Franchi’, è un periodo nero per tutti questo... ». « Mio caro Rocco, la vita è dura per tutti... ».
Un cane abbaiò in lontananza.
« Mah... » Rocco scosse le spalle, « comunque adesso

con la questione delle mie spedizioni con Peppi vedrò che fare... non c’è dubbio però che la poesia della notte va ascoltata, e gireremo e gireremo per non perderci neanche una nota ».

Franco annuì con un sorriso.

« E poi, cerca di star su, eh. Continua ad andare al rifu- gio e mettiti in cerca d’una tipa per scoparla e al diavolo tutto e, poi, quando la vedi a quella scema là, salutala con un sorriso a trentadue denti, anzi chiedile come sta e poi, perché no? invitala fuori a bere un caffè e magari dille anche che se il suo nuovo bozzo non la soddisfa, per una sveltina della serie ricordiamo i tempi andati, ci sei sem- pre... e stai col bimbo poi, lui non ha colpa di nulla... ».

« Ah no, quello lo so, con lui ci gioco, quando lei non c’è... ».

Rocco mise una mano sulla spalla di Franco.

« Forse è proprio quando lei c’è che devi giocarci, pen- saci... ».

Franco lo guardò. I clienti se ne stavano andando adesso.

« Rocco, non è semplice, non lo è per niente, forse un giorno lo farò, farò tutto quello che m’hai detto, ma... ci vuole ancora tempo... ».

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Entrò in casa e mise il catenaccio alla porta.

SETTE

Marco guidò l’auto fin dentro il giardino. Tanto do- mani sono a casa dal lavoro e non ha senso la- sciarla fuori pensò, mentre chiudeva a chiave il cancello.

Cominciava a piovigginare. Un leggero velo d’acqua che gli bagnava i capelli.

« Mamma, sono a casa » urlò, rivolto alle scale che con- ducevano al piano di sopra. Non vi fu alcuna risposta.

Oh, s’è offesa.

In cucina, una pila di piatti sporchi riempiva il lavabo. Sbuffò e cominciò a lavarli, mentre fuori la pioggia au- mentava. I vetri della finestra tintinnarono e vi fu un baleno lontano.

Viene il temporale si disse, fissando la vetrata che la- sciava intravedere un’ampia fetta di giardino. Il cielo mandò il suo lamento e dopo qualche istante il primo ful- mine s’abbattè con forza e fragore sulla terra. Un potente orgasmo di qualche nuvola nera.

Seguirono altri tre spaventosi botti, e la luce d’improv- viso saltò. Marco si ritrovò immerso nelle tenebre. Cacciò con stizza una bestemmia e lasciò cadere nel lavabo il piatto che stava pulendo. L’acqua era diventata gelida.

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Gianluigi Valgimigli

« Mammaaaaa! La luce è saltataaaa! » gridò con forza, ma non ottenne risposta.

Bestemmiò nuovamente, pestando nevroticamente i piedi per terra.

Ma perché cazzo deve fare così, quella maledetta... gli venisse un colpo...

Chiuse il rubinetto e si diresse al piano di sopra.

Ad intermittenza i fulmini scalfivano le tenebre, unica luce ad illuminargli la via. Quando fu davanti alla porta della camera da letto della madre cercò a tentoni la mani- glia. Aprì, mentre già si preparava alla probabile lite furi- bonda.

« Ma perché... », ma interruppe la frase.

Il letto, sul quale solitamente sua madre spendeva inu- tilmente le giornate, era vuoto. Le coperte erano state get- tate sul pavimento.

« Mamma! » urlò, fermandosi di scatto al centro della stanza. Urtò col piede qualcosa, una bottiglia di vino vuota, che andò in frantumi contro il muro. Un nuovo fulmine il- luminò la stanza a giorno. Col cuore in gola Marco rimase attonito. Poi un lamento rauco, alle sue spalle, lo fece vol- tare.

Il bagno! La voce veniva dal piccolo bagno in fondo alla stanza. Si precipitò lì. La finestra era aperta, la piog- gia entrava e inondava tutto. Bagnava il corpo di sua madre, stesa a terra, rantolante, in un lago di sangue.

« Mamma! ».

Marco si gettò a terra e l’afferrò per le spalle. Nel cer- care di metterla seduta, la scuoteva freneticamente.

« Mamma, mamma » urlava, schiaffeggiandola.

Il cielo gli faceva eco. Botti potenti rimbombavano nel- l’angusto bagno, falci di luce tagliavano il buio.

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Sua madre emetteva, ogni tanto, qualche confuso sin-

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gulto. C’era sangue da ogni parte. Sangue sul lavandino, sangue sul pavimento, sangue sul water, sangue sul suo volto e sui capelli e sulla vestaglia.

Non sapeva cosa fare. All’improvviso sua madre iniziò a contorcersi freneticamente e, chinandosi in avanti, vo- mitò un fiotto denso di sangue.

Marco cominciò a piangere e a tremare. Tentò di al- zarsi, trascinando con sé sua madre e con un grande sforzo ci riuscì. La trascinò fino in camera e la stese sul letto.

« Mi senti, mamma? Sei caduta, hai battuto la testa, mi senti? Adesso ti porto all’ospedale, va bene, mamma, va bene? ».

Nessuna risposta coerente, solo rantoli e mugolii.

V’era un grosso squarcio sulla fronte della donna. Marco corse in bagno, prese un asciugamano e ritornò nella camera da letto e glielo pigiò sulla ferita. La tirò su nuovamente e la condusse verso le scale. Con il braccio sinistro che le circondava il petto, mentre la sua mano de- stra teneva pigiato l’asciugamano sulla fronte, si sforzò di restare in piedi facendo forza sulle gambe. Riuscì a farle scendere le scale e arrivarono alla porta d’ingresso.

« Mamma, ti lascio un secondo qui seduta, va bene? Vado a prendere le chiavi di casa, un attimo... ».

Mise la madre seduta sul primo gradino della scala e andò in cucina. Prese la chiave e, tornato nell’andito, si mise ad armeggiare col catenaccio. Le mani gli tremavano e a ogni tuono che udiva le chiavi rischiavano di cadergli. Sua madre alle sue spalle si lamentava.

« Ci siamo mamma, ci siamo, o-ormai c-ci siamo... ».

Riuscì ad aprire la porta. Fuori era il diluvio. La piog- gia cadeva fitta, forte, e i tuoni scoppiavano, seguendo la cadenza di una danza di morte che strillava le sue cupe note nell’aria. Madre e figlio, lei a piedi nudi, avanza-

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Gianluigi Valgimigli

rono nel fango, diretti all’auto. Marco mise in moto e guidò fino al cancello, ma, trovandolo chiuso, dovette fermarsi.

Uscì ad aprirlo, scivolò e cadde lungo distesto. Igno- rando il dolore al ginocchio destro, rientrò nell’abitacolo e mise in moto. Guidò per le campagne, slittando e cercando di mantenere il controllo e continuando a parlare con la madre, per tenerla sveglia.

« Ricordi quando abbiamo fatto quel lungo giro, qui giù dal fiume, eh, ricordi? C’era il cane che aveva preso in bocca quel rospaccio grosso e nero, quanto abbiamo riso! ».

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OTTO

Franco posò il bicchiere vuoto sul tavolo. « Ciò dai mo’ qua, versa versa che il bicchiere piange quando è vuoto! ».
Pietro non se lo fece ripetere, s’alzò in piedi e versò

quattro dita abbondanti di Marsala nel bicchiere, per porre fine al suo pianto.

Franco buttò giù tutto d’un sorso.

Stavano tutti là, al Rifugio dell’Anima. Marco, Gimmi, Seba, Rocco e, ovviamente, Franco e Pietro. Rocco era stato invitato da Franco. All’inizio non era stato molto en- tusiasta dell’idea, ma poi s’era lasciato convincere e adesso si stava divertendo parecchio. Gimmi, già un po’ imba- riago, cominciò a rievocare, delirando, la giornata che la comitiva aveva passato tra i boschi. Erano stati a caccia tutto il giorno. Avevano camminato per ore e ore, tra bo- schi, sottoboschi, torrenti, vallate, calanchi, campi e filari. Ogni tanto, tra le nuvole, era spuntato il Moral che col suo occhio vigile aveva vegliato su di loro, augurando buona caccia. Pietro e Marco erano gli unici che avevano preso qualcosa. Due fagiani maschi il primo, e una bella lepre il secondo. Ed era la prima volta che era tornato il sorriso a colorare il volto provato di Marco. Era stato lì, reggendo la

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sua lepre come un trofeo, appoggiato a un albero, a sorri- dere compiaciuto verso il padre.

Pietro, nel vederlo, s’era quasi commosso e forse anche il Moral, lassù, aveva avuto gli occhi un po’ rossi. Tutti erano rimasti a guardarlo reggere quella lepre e sorridere. E Gimmi gli aveva anche scattato varie foto.

La battuta era stata organizzata da Pietro che, dopo il ri- covero dell’ex-moglie all’ospedale civile di Faenza, aveva radunato tutti gli amici cari del figlio con l’intento di di- stogliere quest’ultimo dai suoi cupi pensieri. L’indomani i problemi sarebbero tornati, certo, ma almeno per un giorno si voleva staccare un po’ la spina.

E allora via coi botti dei fucili, le risate, l’avventura, su, su, su, per i sentieri di montagna e poi giù, giù, giù, fin dentro al cuore della Balda. E adesso alcol a fiumi e caz- zate a non finire.

Pietro aveva scuoiato la lepre e spennato i fagiani. Aveva pulito tutto ben benino, estirpando interiora e roba varia, poi aveva sezionato e infine cotto sul fuoco. Senza scordare le patate di contorno e i vari odori, ovvio.

« E poi quando te poi, Seba, ti sei buttato per terra, sì sì, perché t’è arrivata la schioppettata sopra alla testa, a mo- menti ti pigliava dritto per dritto, ahahahahahahah ».

« Be’, scusa Gimmi, non c’è mica niente da ridere, po- tevo morirmi, sai, non fa mica ridere... mi sono fatto male a buttarmi... non c’è da ridere... non ridermi... ».

Seba si stava un po’ stizzendo, non gli piaceva per niente che si ridesse di lui perché si sentiva preso in giro. Era probabilmente l’unico che ancora ci prendeva in pieno, siccome non aveva bevuto. Non beveva mai, manco un goccio, si professava astemio. Ma soprattutto non voleva che lo si tirasse in mezzo nei discorsi, più di tutto se c’era da ridere di qualcosa che gli era successo.

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Gimmi smise di parlare all’improvviso e si alzò in piedi col bicchiere alto, davanti a sé.

« Voglio fare un brindisi, bioparco! » annunciò.

Usava sempre quella buffa espressione per non dire l’altra parola che invece quasi tutti gli altri usavano, la be- stemmia, quella in cui si dava del suino al creatore.

Perché così, almeno, quando arriverà il momento di morirmi non andrò all’inferno, diceva.

« Dunque, allora, il mio brindisi vuol essere per... » e s’interruppe un attimo, per schiarirsi la gola, « ...vuol essere un augurio a tutti noi, affinché possiamo sempre camminare uniti, per mano, lungo l’orizzonte dei giorni che avremo... proiettati verso il futuro incerto, sì, ma che affronteremo con coraggio semplicemente stando uniti, perché noi siamo i fra- telli, siamo I Fratelli, veri e semplici, puri, come qui, sta- notte, sotto le stelle, a bere e a fumare e a sparare stronzate, con le mani ancora calde e profumate di piombo, noi, NOI, che siamo la notte, che dobbiamo essere fieri di essere NOI, così diversi e poetici, vivi ma teneramente accarezzati dalla morte, la morte che è la nostra puttanella bella, proprio noi che siamo diversi da tutti, che siamo gli unici che sono e ri- mangono fratelli... e sapete che dico... comporrò opere mu- sicali dedicate a noi, al nostro legame, al nostro essere, già, lo farò quando riuscirò a sfondare come pianista, perché un giorno ce la farò, scriverò note alla vostra memoria, in culo al bioparco! Ahahahahah! ».

Finito il delirio, Gimmi si rimise seduto e prese la mano di Rocco, che gli sedeva accanto, poggiandosela sui ca- pelli.

« Forza, morte, dolce puttana dei miei sogni, accarez- zami il capo come solo tu sai fare, bioparco! ».

Rocco si mise a ridere come un pazzo e iniziò a lisciare la testa di Gimmi col palmo della mano sinistra.

Aspettando il cielo

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« Ooooh, che dolci peli hai, come sei bellina, Gim- mina! » diceva, mentre lo accarezzava.

Sicuramente bello lo era, Gimmi, alto e slanciato, ca- stano e con un’affascinante barba.

« No no, queste cose a me non mi vanno bene per niente! » disse Seba, scossando il capo con sdegno.

Franco lo interruppe, avvicinando la bottiglia di Mar- sala al suo bicchiere pieno d’acqua.

« Ma dai Bubi, è che hai bevuto poco! ».

« Sta’ fermo là » lo ammonì Seba, « io non bevo mai, via con la bottiglia, e non chiamarmi Bubi che mi fa schifo! ».

Detto questo, Seba allontanò il bicchiere dalla bottiglia e fece per dare un ceffone a Franco.

Tutti si misero a ridere. « Non ridetemi, ho detto! ». Marco diede una pacca al padre.
« Allora, vecchio, quand’è che tiriamo fuori la roba

buona? ».
« Ma diobò, la vado a prendere subito, giovane! ». Pietro si alzò e si diresse alla cantina. « Di cosa an-

diamo? » urlò rivolto al gruppo.
« Vai di quello che vuoi, tanto io non bevo! » fu il com-

mento di Seba.
Dopo una piccola discussione, si decise per “il latte di

vecchia”.
« Sì, andiamo di latte di vecchia, le lacrime di Venere

non van bene, Venere è troppo figa per brutti ceffi come noi! » disse Gimmi, aprendo la bottiglia.

Il latte di vecchia era roba buona. Andava giù che era una meraviglia, non smagava ma, se non stavi attento, po- teva ucciderti.

« Però t’uccide dolcemente! » urlò Rocco, già al se- condo bicchiere.

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« Il Qualcosa, il Qualcosa, è il Momento, il Momento è stato raggiunto, c’è di nuovo quel Qualcosa. Questo è il Momento, lo sento, e noi fra poco voleremo in cieloooo- ooo... » bofonchiava Franco, guardando in alto, « Moooo- ooral, sei lì sopraaaa? ».

Pietro battè forte la mano destra sul tavolo e cacciò il grido del falco.

« Lui è sempre lì sopra! » urlò al cielo.
« Amen! » chiosò Marco.
« Vita vita vita e moooooorteeee... » disse Gimmi, men-

tre scossava la testa avanti e indietro, avanti e indietro. Rocco si protese sopra il tavolo e diede una forte pacca

sulla spalla sinistra di Seba.
« Ohi Seeeebaaaa, oooooh, non dici niente? ».
« Sta’ zitto, lasciami in pace, sei ubriaco, bestia! ».
« Maccheccaspio, c’è ancora del rancio da finire, but-

tate giù giovani, voi che siete giovani, diobonino! » disse Pietro, ritto in piedi, facendo passare il vassoio col cibo, sulla testa degli astanti.

« No no, io sono troppo ubriaco per mangiare! » rispose Rocco.

Marco s’allungò sul piatto per primo.

« Mò vieni qua vecchio, con quel cavolo di vassoio, vieni che te lo svuoto io! ».

Franco e Gimmi seguirono il suo esempio.
« 
Mò sì, mò bota zò sta carnazìa! ».
« 
Ohi Franchi’, a’tla bot zò sè, a’tla bot! ».
Detto fatto, Pietro prese l’ultimo pezzo di lepre, una co-

scia, e lo mise nel piatto di Franco. Il vassoio fu svuotato. Pietro lo sassò in mezzo a un cespuglio. Antia, che per tutto il tempo era rimasta accucciata a guardare, corse a recu- perarlo e iniziò a leccarlo tutto. Alla fine cominciarono i canti, cominciò la musica.

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Pietro prese l’armonica e Franco la chitarra classica. Una vecchia chitarra che stava dentro al rifugio, comple- tamente scordata e impossibile d’accordare perché rotta. Ma a nessuno importava nulla di questi dettagli. L’impor- tante era suonare forte, far casino, far baracca e al diavolo tutto il resto.

Pietro cominciò a sputare dentro all’armonica, se- guendo il ritmo del valzer. Franco manteneva il due terzi, con un semplice giro d’accordi che partiva in do e calava al la minore, poi re minore, sol settima e ritorno al do. Tutto in un zum-pa-pa\zum-pa-pa, completamente scordato e fa- stidioso.

Pietro intonò completamente fuori tempo:

Labbra rosse e boccuccia di rosa,
la mia ragazza oggi si sposa,
tengono tutti in alto il bicchiere,
ma è troppo amaro quel vino per me, OLEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEE!

Poi di nuovo un assolo d’armonica e via col verso se- guente. Tutti battevano le mani, perfino Seba s’era messo a cantare.

Suonavano, suonavano nella notte, in cima alla Balda, suonavano perché ancora ne avevano la forza. Poi fu il mo- mento per Marco di cantare.

Arriba de notte,
fa pauuuraaaaa,
nella notte oscuraaaaa...

Stava cantando la canzone del Bandido Nero, un brano scritto da lui e da Franco in onore di un personaggio di una

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serie a fumetti che, a tempo perso, Franco disegnava per di- vertimento e passione.

Cominciarono a cantare tutti. Strillavano forte, immersi nel buio. Non c’erano luci, lassù, era il loro canto ad ac- cendere la notte.

Ohooooooooooooooooooooh, Bandido Neroooooooooooo, Ohooooooooooooooooooooh, Bandido Miooooooooooooo!

Quel ritornello, strillato all’unisono, era la cosa più li- beratoria del mondo, era epico. Continuarono a suonare e a cantare per almeno due ore. Sul finire dell’esibizione Franco s’alzò in piedi e si gettò in ginocchio per terra, con tanto di scivolata. Stile “Rock’n’Roll Star”.

Aspettando il cielo

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NOVE

La festa era finita. La tenda che era stata montata il pomeriggio era pronta ad accoglierli. Sarebbero stati un po’ stretti, ma andava più che bene. E poi, erano

talmente ubriachi che per quanto li riguardava potevano dormire bellamente stravaccati sulla terra nuda. Tutti ubria- chi tranne Seba, ovviamente, il quale infatti si prese il posto più comodo e lo difese coi denti e le unghie.

Marco rimase fuori, a fumare. Se ne stava immerso nel buio, vicino al fuoco ormai spento e dando le spalle alla tenda. Il mondo attorno a lui vacillava leggermente, come fosse trasportato da un’immensa barca su un mare infinito. Guardava la croce del Moral, lassù sulla cima di quel cri- nale lontano. Nel buio non la distingueva tanto bene, ma sapeva che era là, in quella grande massa nera, sullo sfondo.

Franco, avendo visto un lumicino rosso sospeso nel buio, gli si avvicinò all’improvviso.

« Oh, Franco, maccheccavolo... mi hai messo paura! ». Franco sorrise.
« M’hai messo tu paura, pensavo ci fosse un fantasma!

Un qualche spirito demoniaco che si stesse avvicinando al nostro accampamento! ».

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Marco sorrise a sua volta, ma in modo più spento.

« Eh, no, Franchi’, qua gli spiriti maligni non possono arrivare, c’è il grande Falco che ci protegge! ».

Franco si grattò la testa e si fissò le scarpe. Pareva si stessero mangiando l’una con l’altra.

« Ah no, è che... » disse dopo qualche secondo, « cre- devo che il Moral dormisse a quest’ora... ».

« I falchi non dormono mai. Lui non lancia il suo grido per non disturbare il nostro sonno... ma non dorme mai... veglia su di noi tutta notte ».
sé. Alzò il braccio, indicando un punto lontano, davanti a

« Vedi, Franchi’? Lassù c’è la sua croce, e anche quella ci guarda e ci veglia, come un talismano ».

Rimasero a lungo a guardare, in silenzio, il loro tali- smano in mezzo alle tenebre.

« Mia mamma adesso starà dormendo... » disse Marco, « non hanno più bisogno di sedarla, sta tranquilla, sai? Sì, è tranquilla lontana da casa, ha ripreso a mangiare e a dor- mire... ha messo su peso... ». S’interruppe, con aria pen- sierosa. « Però non cambierà niente... quando tornerà a casa ricomincerà tutto da capo... tutto è già destinato a fi- nire... è un po’ come il mio rapporto con le donne, mi segui? Di tre non me n’è andata bene con una, e quindi, be’, ho lasciato perdere, ci ho dato su e al diavolo tutto, capisci? ». Fece una nuova pausa, raccolse il fiato. « Così adesso è già tanto che non ho una donna e non so manco se l’avrò mai più... Qua è uguale, andrà tutto a puttane e al- lora starò semplicemente ad aspettare che mia mamma parta... per non tornare... ».

Franco si sentì in dovere di fare una sorta di discorso importante ma tentennò perché non trovava le parole. Poi ci provò comunque.

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« Vedi, Marco, io... ecco... io dovrei essere l’ultimo a farti un discorso in linea di massima positivo, siccome sono uno della tua specie, mi piango addosso, vivo nella tristezza e nel dramma di quello che mi è successo e tutte le altre sciocchezze, eccetera... però penso che, tutto som- mato, no, insomma non è che penso, ecco... quando vengo quassù sembra sempre che succeda qualcosa, come... qual- cosa di specifico da leggere come una parola importante, capisci? Sento dentro, ma non so dirlo a parole per bene, che è successa una cosa importantissima, una cosa che, parlando del tempo, non è altro che una frazione di se- condo, un momento preciso che posso sentire bene e di- stinguere e che mi fa dire che... ecco, ci siamo, questo è il momento, il momento che arriva... e allora penso, in quel momento io penso che noi stiamo vivendo qui e facciamo e diciamo quello che facciamo e diciamo, per uno scopo ben preciso, per combinare qualcosa di importantissimo, che proietterà le nostre parole e le nostre azioni nella leg- genda, che noi stiamo vivendo una leggenda... ».

Marco si voltò a guardarlo, dritto in faccia.

« Franchi’, ma ti rendi conto che non ho capito un ac- cidente di quello che hai detto? ».

Franco si schermì, un po’ imbarazzato.

« Sì, in effetti non lo so spiegare » ammise, « e forse non c’è neanche un senso in quello che ho detto, però qual- cosa sento e continuerò a sentirlo, perché è qualcosa che appartiene a noi e alle nostre azioni e poi mi fa stare me- glio, mi fa sentire epico, un eroe... ».

« Seeee, proprio eroi siamo... siamo degli sfigati, ecco quel che siamo, soltanto degli sfigati e basta, abbiamo tutti la nostra triste storia da raccontare, abbiamo tutti un motivo per chinare il capo e deprimerci nella solitudine dei nostri pensieri che ci tormentano giorno e notte, quell’angoletto

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di buio che sta sempre lì infilato e non ci fa trarre la feli- cità piena manco da una giornata perfetta come questa... va be’, oggi ho riso e mi sono divertito, ma non avrete certo pensato che la mia mente non sia andata spesso a mia madre... siamo pieni di pensieri brutti che ci tormentano e stanno sempre, come una maledizione, a gravarci sul capo e a ricordarci che noi siamo destinati alla gogna... ».

« Ecco Marchino, questa è una delle tue tipiche frasi ad effetto... ».

« Be’ dai, mò perché adesso mi vieni a dire che la tua mente non galoppa sempre dietro al pensiero di quella fur- betta che ti ritrovi sempre in casa? ».

« Sì, ci penso, ma non sempre, o perlomeno non voglio pensarci, mi sforzo di non farlo. In una giornata come que- sta, per esempio, non lo faccio, perché io qua sto bene... sia lode al Rifugio dell’Anima... ».

Restò in attesa che l’amico commentasse le parole ap- pena dette, ma Marco restò in silenzio a guardare davanti a sé.

« Sto cercando piano piano di salvarmi e, se vuoi sa- perlo, penso che il chiudermi in camera a frignare e a ri- cordare tutto quello che è successo, be’, in realtà mi può solo aiutare, perché è un modo di sfogarmi, capito? Mi faccio da psicologo, penso a tutto e butto fuori, pian- gendo. Se si butta fuori tutto, io penso che un giorno non si piangerà più, perché non si può piangere se le lacrime sono finite... ».

« Boh, Franchi’, in quello che mi hai detto io ci vedo solo un disperato che si mugugna addosso... fumi? ». 

Franco accennò un sì con la testa e Marco iniziò a pre- parare, sedendosi sull’erba. Fumarono in silenzio, per al- meno mezz’ora, in compagnia dei loro pensieri confusi dall’alcol.

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« Ohi gente, non dormite voi qua? Le fate pese, eh? Vo- glio fumare anch’io, diocristo! ».

Rocco era uscito dalla tenda e aveva raggiunto i due amici.

« Oh, siediti qua vicino a dare un po’ di tiri insieme a me! » disse Franco, invitandolo con un gesto ripetuto della mano.

Rocco si sedette a fumare con loro.

« Grazie mille, grazie, siete bella gente, sì, non pensavo e invece... ».

Il tempo passava e la notte s’inoltrava sempre di più.

« Giovani, per voi non esiste letto stanotte, eh? Ve ne state già appostati in difesa? Ma la rivoluzione ci metterà ancora un po’ ad arrivare, adesso è ancora un po’ presto, l’è ancor un po’ prèst... ».

I tre amici si voltarono e sorrisero a Pietro che stava giungendo alle loro spalle.

« Ohi, grande capo indiano Pelle di Lupo, signore della Balda, ben giunto tra noi » esclamò Rocco, spostandosi per fare posto al nuovo arrivato. « Marco prepara da fu- mare per il nostro santo fratello! ».

« Grazie giovane, te la cavi sai con lo schioppo. Hai una buona mira, complimenti, potresti considerare l’idea di pren- dere il porto ed entrare a far parte della nostra squadra... ».

Rocco rispose ai complimenti di Pietro con un sorriso compiaciuto.

« Potrei cominciare a considerare l’idea, capo, Augh! ». Tutti risero, dandosi pacche.
« E così, capo Pelle di Lupo... » continuò il discorso,

« crede tu che situazione risolvere con grande rivoluzione? Augh! ».

« Esatto, giovane Piccolo Pisello, io credere che tutti un giorno rompersi palle tanto ma tanto e prendere loro to-

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mahawk e andare da grandi capi di grande tribù che co- manda nostre terre, a prendere loro scalpo e violentare loro squaw, sì, e allora noi dovere preparare bene a questo, sì, grande Pelle di Lupo parlato, Augh! ».

« E unire nostra piccola tribù a nostri amici con palle rotte, no? ».

« Certo, Piccolo Pisello, noi unire loro con nostri archi al piombo, ma stare poi anche in guardia e difendere nostro accampamento quassù su Balda, perché grande tribù di grandi capi che comanda non starà a guardare fermi, men- tre noi prendere loro scalpo e loro belle squaw, ma com- battere anche loro di sicuro con loro mezzi, quindi noi preparare bene, Augh! ».

Rocco si era esaltato ad ascoltare questi discorsi.

« Questa è la soluzione... » urlò, alzandosi all’improv- viso. « Io non devo sfogare il mio disprezzo sui pecoroni col cervello lavato, io devo pulire le loro coscienze, af- finché loro tornino a capire e scendano in campo a com- battere! ».

« Ma cosa urla, è matto? Che cazzo sta dicendo? L’al- col gli ha bruciato qualche neurone! » disse Marco rivolto a Franco.

« Massì, vai tranquillo, è matto. Fino all’altra sera rompeva i vasi nei giardini della gente, è abbastanza fuori. Adesso sparerà qualche discorso rivoluzionario per qualche giorno e poi cambierà bandiera e tutto tornerà calmo... » gli rispose l’amico.

Pietro si mise a ridere di gusto, indicando Rocco.

« Ma guardatelo, giovani, questo è già pronto per la guerra, ahahahaha! ».

« Dai Rocco, siediti e falla finita di dire sciocchezze! » disse Franco, prendendo un lembo dei pantaloni dell’amico e tirandolo a sedere. Il baccano intanto aveva destato anche

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Gimmi che li stava raggiungendo. « Ooooooh, oho hohoh, c’è una festa qua e non mi è stato detto! ».

« Ohi Gimbo » Marco si voltò a guardarlo, « a ‘sto punto sveglia anche Seba, dai, così ci siam tutti! ».

« No, no, Seba dorme e sornacchia di gusto, è la tutto rannicchiato, gli manca giusto il dito in bocca, gli manca... ».

« Ahhahahahaha, alla fine l’unico che non ha bevuto è l’unico che dorme come un sasso, ahahhaha! » esclamò Franco, ridendo.

« Sì, ma... Seba è Seba, è una mente superiore, noi sem- plici umani non possiamo capirlo!» gli rispose Gimmi, mentre si sedeva alla sua destra.

« Ohi giovane! » Pietro salutò il nuovo arrivato.

Rocco, che dopo la sua levata di prima s’era strana- mente incupito e ora stava con la testa tra le mani, guar- dando per terra parlò all’improvviso: « Io non dico sciocchezze... no no no nooooo... io... mi piacerebbe pren- dere su e andare via... lontano lontano... ».

Marco lo fissò con un’espressione strana, aggrottando la fronte. « Ma come Rocco... prima dici che sei già pronto a combattere e adesso te ne vieni fuori che vuoi mollare tutto e partire lontano? ».

« Ma è l’alcol, è l’alcol che parla per lui... » s’intromise Franco.

Gimmi e Pietro sghignazzarono.
Rocco riprese il discorso.
« Boh... io non lo so... a volte sento la voglia di pren-

dere su, fare fagotto e andarmene, ma non posso, poi mi fermo perché non posso... sento che è impossibile... non ho i soldi, non ho esperienza, non saprei come sbattere la testa... vorrei fare come in un libro che ho letto, di vaga- bondi che prendevano il treno al volo... ma è stato in un’al-

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tra epoca... oggi è tutto così cambiato... oggi... non posso andare via... è impossibile andarsene da qua... ».

« Giusto, amico, e così si scende in campo e si com- batte, vero? » lo canzonò Franco. « Se non si può andare via, l’unica strada è, ah! la guerra, poporoponzipopopo! ».

« Io... » continuò a bofonchiare Rocco, « non so cosa... andare lontano... non si può scappare... ».

Marco gli diede una pacca sulle spalle.

« Eh, Rocco ha bevuto così tanto stasera da mostrarci ben due anime... gente, il potere dell’alcol! ».

Pietro si alzò di scatto, come ricordandosi di qualcosa.

« Ohi giovani, ma a proposito di potere dell’alcol... vi va di farvi stregare ancora? La mia cantina ha ancora molto da offrire, sapete? ».

« Oooooh, questa è una buona notizia, dai mò! » disse Gimmi, battendo le mani.

Pietro s’avviò traballante verso la cantina e prese una bottiglia di “piscio di diavolo”.

« Questo sì che è forte, gente! » commentò Franco, ve- dendo la bottiglia.

Rocco si alzò in piedi e iniziò a trascinarsi verso la tenda, a testa bassa.

« Ehi giovane, ma dove vai? Il bello comincia adesso, stai qua e vedrai che torni a ridere! » gli urlò dietro Pietro. L’invito non servì a nulla, il ragazzo non spiccicò pa-

rola e s’infilò dentro alla tenda.
« Gli è presa male... gli è presa la sbronza storta! » disse

Marco, rivolto a nessuno in particolare.
Franco guardava il muro nero di montagne, di fronte a

sé. Gimmi prese in mano la bottiglia, la stappò e prima di bere disse: « Be’, allora beviamo anche alla sua salute! ».

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La bottiglia fu passata di mano in mano.
« Gente » disse Franco, dopo il suo sorso, « ma voi

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Aspettando il cielo

cosa volete fare nel vostro futuro? Insomma, che aspira- zioni avete? Come vi immaginate da qui a dieci anni? Ve lo chiedo perché il discorso di Rocco, ecco, mi ha dato da pensare... lui mi sembra parecchio indeciso sul suo fu- turo... è triste... vorrebbe, ma viene bloccato dalle circo- stanze... e... voi? Voi che farete, invece? ».

« Be’, io... » cominciò Gimmi.

« Sappiamo già bene cosa vuoi fare te » l’interruppe Franco, « il nostro grande pianista, fai parlare un po’ gli altri! ».

Marco scosse la testa e sbuffò.

« Oh Franco, ma che vuoi che facciamo noi altri, te l’ho già detto prima... farò da balia a quella là finché non muore, continuando a spaccarmi la schiena nel mio lavoro di catering e poi, una volta che lei è uscita dai giochi, mi arruolerò nei militari, aspettando la guerra... pfui... tanto è tutto andato... ».

« Oh, bioparco, che depressione! Marco sei proprio de- presso, sì sì sì... ».

« ‘scolta Gimmi, non rompermi, eh! Sono gli altri che rompono! ». Pietro calò una mano sulla testa del figlio.

« Io veramente ricordo » cominciò, sorridendo, « che un tempo tu volevi fare lo scrittore, stavi scrivendo un ro- manzo, o sbaglio? ».

Marco si voltò a guardare il padre. « Già, l’ho scritto quel dannato romanzo, porca vacca, l’ho scritto... è lì... in un cassetto... il mio sogno nel cassetto... ».

Gimmi si portò la bottiglia alle labbra.

« Aaaaah, ragazzi, un sorso di questo esaudisce ogni sogno, sììììì... e tu, Pelle di Lupo? Tu a cosa ambisci? A cosa ambisce il nostro grande capo? ».

« Io? be’... io la mia vita l’ho già vissuta, adesso sto aspettando il cielo... ».

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Nell’udire la frase di Pietro, Franco si agitò, battendosi le mani sulle cosce.

« Ecco... » esclamò, « questa... questa è la Frase! Sì, e nel mio futuro diventerò il portatore di questo verbo, m’impegnerò a divulgarlo, m’impegnerò affinché tutti sap- piano, affinché il Qualcosa diventi concreto... terrò la cro- naca delle nostre vite... ».

« Alè, adesso basta! » saltò su Gimmi. « Basta con que- sta improvvisata filosofia, un altro giro di sorsi e andiamo a farci benedire tutti quanti! ».

Continuarono a bere e a dire sciocchezze, ridendo come pazzi, fino a mattino.

Se la vera festa era finita, loro ne avevano iniziata un’altra, più piccola e intima, ma pur sempre una festa.

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DIECI

L’aria di primo mattino era così gelida... Marco si stringeva nel cappotto, battendo i denti.
« Oh la mia testa, la mia povera testolina... » si lamen-

tava Gimmi, intento a preparare lo zaino.
« Che ora è? » chiese Franco.
« Le sette e tre quarti! » gli rispose Pietro.
« Bene, allora vado a svegliare i due pigroni! ». Franco si diresse alla tenda mentre alle sue spalle

Marco gridava: « Sì, sì, e che si preparino in fretta, così smontiamo la tenda e andiamo che qua si muore dal freddo! ».

Dentro alla tenda Seba dormiva a bocca aperta, rus- sando rumorosamente. Rocco stava rannicchiato in un an- golino, verso il fondo, dando le spalle all’entrata.

« Forza, sveglia, sveglia! ».
Franco batteva le mani.
Rocco cominciò a svegliarsi.
« Uhhhhnnnn... oddio... mi gira tutto... » disse, stirac-

chiandosi. Lentamente riuscì a mettersi in piedi.
« Ohi, come va? Tutto bene? » gli chiese Franco.
« Mmmmh... se sono riuscito a sollevarmi vuol dire che

nonostante tutto sono ancora qua... ».

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Gianluigi Valgimigli

Si chinò su Seba e cominciò a scuoterlo. Con uno scatto nervoso il ragazzo si destò di soprassalto. « Cosa vuoi oh! Lasciami stare, non mi toccare, che fai! ».

« Sta’ calmo Seba, è mattino, ci stiamo preparando per andarcene... » lo tranquillizzò Franco.

« Io sono calmo, non dirmi che devo stare calmo! ».

Il gruppetto uscì dalla tenda e ognuno si mise a preparare il proprio zaino. Pietro camminava avanti e indietro, racco- gliendo rifiuti vari e buttandoli dentro a un grande sacco nero. La tenda fu smontata. La porta del Rifugio dell’Anima venne sbarrata col catenaccio, fino alla prossima visita.

« Forza giovani, la baracca è ufficialmente finita, si torna alla civilità! » annunciò Pietro al gruppo, sospirando. « Alè, si torna a combattere! » disse Marco, quasi an-

noiato, con un’alzata di spalle.
Il grido del Moral raggiunse la comitiva non appena que-

sta cominciò a risalire la vigna, diretta alle macchine.
« Ecco il vecchio che ci saluta! » si fermò Franco. Tutti si fermarono.
« Forza, ricambiamo il saluto con un bel grido, tutti as-

sieme! » disse Pietro, guardando il falco volare in cerchio, sopra le loro teste. Urlarono tutti al cielo.

Grazie fratelli, ci vediamo alla prossima, io sarò sem- pre qua, ad aspettarvi! parve rispondere l’uccello col suc- cessivo grido, volando verso la grande croce.

« Guardate, s’è appollaiato proprio sulla croce! » esclamò Gimmi, indicando la grande montagna davanti a loro. Il falco stava lassù, sul braccio destro della croce, sulla cima del monte più alto della Balda, a guardare tutta la vallata.

« Lui da lassù vede tutto, sta lassù e così può facilmente tenere sotto controllo tutta la valle della Balda! » disse Pie- tro, con gli occhi lucidi.

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In silenzio, si rimisero in cammino. Nessuno fiatava più. Avanzavano, risalendo la collina, ma non parlavano. Marco teneva la testa bassa e si fissava i piedi. Rocco, col capo leggermente volto alla sua destra, guardava le val- late lontane, illuminate dal tiepido sole di prima mattina. Franco camminava a mani giunte, rigirandosi i pollici. Non fissava nulla in particolare, ma teneva gli occhi stretti stretti, ridotti a piccole fessure, dando l’idea di chi pensa intensamente.

Seba trotterellava alle sue spalle, strappando fiori e ar- busti, a destra e a manca. Gimmi era più indietro rispetto agli altri. Spesso si voltava indietro e camminava al con- trario, guardando verso il Rifugo dell’Anima. Pietro, in- fine, stava in testa al gruppo, fiero, col capo ritto e gli occhi ancora lucidi e rossi. L’erba medica, alla sua destra, si mosse all’improvviso. Era Antia che li aveva raggiunti. Era dagli schiamazzi della sera che non si faceva vedere.

Arrivarono alle auto. Si congedarono in fretta, qual- cuno scambiandosi qualche pacca distratta e qualche ciao. Senza sorrisi o promesse varie. Ci fu anche chi non alzò gli occhi.

Aspettando il cielo

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UNDICI

Un’aula di scuola. Tu te ne stai steso a destra della cattedra e una bella ragazza ti è sotto. Siete en- trambi nudi. L’insegnante ha le corna ed è tutto nero.

Spiega agli alunni il sesso usando te e la tipa come esem- pio. Questi se ne stanno, non troppo interessati, a lanciare uno sguardo, ogni tanto. Fuori piove. La finestra è grande e vedi che fuori piove.

Ci dai e ci dai, strusci il tuo membro sulla vulva di lei, ma non riesci a penetrarla. Non ti si rizza nemmeno, a dirla tutta. T’immagini scene di sesso selvaggio, di donne che si leccano tra loro e uomini con piselli grossi che si fanno succhiare da studentesse che, per essere col volto tra le loro gambe, hanno marinato la scuola. Brutte cat- tive!

Ma no... niente... non riesci a fartelo venire duro e lei, sotto di te, sbuffa e si annoia e pensa ai panni che dovrà sti- rare, una volta giunta a casa. All’improvviso la porta del- l’aula si apre ed entra tuo padre, sorridendo.

Son venuto a prendere mio figlio dice, con voce grossa.

Suo figlio è impegnato, come può ben vedere gli ri- sponde quella specie di demone cornuto che è l’insegnante, indicando te che ti strusci con la tipa.

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Gianluigi Valgimigli

Oh oh oh, va bene va bene, ripasserò più tardi allora, dacci dentro figliolo ti dice tuo padre, fissandoti. Poi se ne va ridendo e chiudendosi la porta alle spalle.

Tu rimani lì, a cercare di darci dentro, con la tipa che è gnocca, sì, ma sbuffa e ti deprime. Volti un attimo la testa e vedi che l’insegnante ti guarda fisso. I suoi occhi sono strani, non hanno colore, sono del colore del non-colore, mentre il suo corpo e le sue corna sono tutte nere nere nere nere nere ne...

Dopo mezz’ora che continui a darci e a pensare a scene piccanti, t’accorgi che non riuscirai a soddisfare la tipa e la pianti di provarci. Ti alzi, a capo chino, ti rivesti. L’in- segnante è lì fisso che ti guarda, ma non dice niente. La tipa nuda con cui ti strusciavi è ancora lì per terra. Non s’è alzata e non si alza.

Piano piano inizia a masturbarsi e a emettere gridolini di piacere. Si tasta fra le gambe con la sinistra, mentre con la destra si strizza un seno e gode. Gli alunni, adesso, sco- pri che sono una ventina circa, si fanno i fatti loro. C’è chi guarda fuori la pioggia, chi si ricorda un asilo, di quando accompagnò la sua ex morosa alla recita del fratellino. C’è chi si scaccola il naso. C’è anche chi disegna fumetti.

Piano piano t’avvii verso l’uscita. Sulla porta ti volti un attimo a guardare l’insegnante e vedi che ti sta fissando ancora, non t’ha perso un attimo, ti fissa intensamente ma non apre bocca. Ti richiudi la porta alle spalle, sentendo come ultima cosa gli urletti di piacere della tipa che non sei riuscito a soddisfare...

Franco camminava verso il rosso del tramonto, alle cin- que meno un quarto di una fredda sera di fine novembre. Era sicuro di essere riuscito, finalmente, a capire un paio di cose. Giusto un paio, ma era già un buon inizio.

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Si stava facendo a piedi la Pietra Mora. La Pietra Mora era una grande montagna, poco fuori Faenza, che lui co- nosceva come le sue tasche. L’aveva girata in lungo e in largo, insieme a suo padre, per anni. Poi era successa quella cosa del bambino e da allora non c’erano mai più tornati. Lui, ogni tanto, ancora ci andava.

Lasciava l’auto parcheggiata a Marzeno, un piccolo paesino ai piedi del monte, e poi s’incamminava su per un sentiero. Adesso era in cima. Aveva sorpassato da poco il boschetto, il suo boschetto speciale. Il boschetto speciale, in realtà, era un insieme di alberi abbastanza alti, in cima a un calanco. Un tempo ci andava spesso, anni prima, quando ancora girava col cinquantino.

Gli piaceva andarci da solo, quando aveva bisogno di pensare e di capire le cose. Ci aveva portato solo una per- sona: la madre di suo figlio. Ma era stato all’inizio della loro storia, quando il tempo della sua gravidanza era an- cora lontano. Era stato in primavera.

Adesso Franco camminava su un sentiero piano, da- vanti a lui il sole che spariva dolcemente all’orizzonte. Chiunque l’avesse visto da lontano, avrebbe pensato che il rosso del tramonto lo stesse inglobando. Saltò un fosso alla sua sinistra e trovò una piccola montagnola di terra, abba- stanza alta. Vi si arrampicò sopra e si fermò a fissare il pa- norama circostante. Oh! quanto sarebbe piaciuta a Rocco questa vista, pensò.

Grandi valli scendevano a strapiombo, verso il centro della terra. C’erano varie piccole casine, sparse in qua e in là e, ovviamente, vasti campi agricoli e filari. Ed ecco, quella laggiù era la Balda! L’aveva detto Pietro che dalla cima della Pietra Mora si sarebbe vista la Balda. Franco vide la catena montuosa che circondava ogni cosa. Vide i picchi bianchi, quelli con la neve, anche quelli si vedevano

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bene dalla Balda... Tutto è collegato, pensò, è tutto colle- gato, fa tutto parte della stessa grande valle e noi, noi ci viviamo in mezzo...

Gli venne all’improvviso in mente il sogno che aveva fatto la notte scorsa... Si trovava in un’aula e cercava, non riuscendoci, di scoparsi una tipa... Un brivido lo percorse al ricordo dell’insegnante. Era un coso veramente inquie- tante, e poi c’è stato anche suo padre... Quel sogno...

Perchè gli era venuto in mente così, d’improvviso, mentre guardava da lassù il panorama e rifletteva su di esso? Una forza strana gli montò dentro. Non sapeva cosa fosse, non sapeva ancora tante cose, ma era una sensazione piacevole.

Una smania feroce s’impossessò di lui e si lasciò tra- sportare. Sentì di aver qualcosa d’importante da dire e di farlo sapere anche alla grande valle. Qualcosa che la sua mente aveva formulato all’improvviso, di getto, come un orgasmo. L’orgasmo che non aveva raggiunto nel sogno...

Si mise le mani a coppa attorno alla bocca e gridò con quanto fiato aveva in gola: « Portatemi la manoooooooo... Portatemi la manoooooooo... Portatemi la manoooooooo... Portatemi la manoooooooo... Portatemi la manoooooooo... Portatemi la manoooooooo... ». 

FINE 

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NOTA dell’autore

Scrissi Aspettando il cielo in un freddo inverno. Per quel che ricordo, la neve fuori cadeva incessante- mente, giorno e notte. Ero bloccato in casa, la macchina

sepolta sotto una collinetta bianca. Avevo ventun’anni e il sogno di una famiglia andato in fumo alle spalle... Pas- savo le giornate ad autocommiserarmi, stravaccato là, sulla poltrona del salotto, rintanato in una casina di Riolo Terme, proprietà dei miei, ormai sfitta da anni.

Isolamento voluto ad ogni costo... stomaco perenne- mente in subbuglio... una scatoletta di tonno o di fagioli al giorno... non che avessi troppa fame...

Siccome in casa non riuscivo a far funzionare il ri- scaldamento, faceva un freddo cane e stavo giorno e notte col piumone, guanti, sciarpa, berretta e cappotto. Poi decisi di alzarmi dalla poltrona e fare qualcosa... qualcosa che mi distraesse, in qualche modo.

C’era un vecchio pc in camera da letto, uno di quei modelli del passato, col case orizzontale e lo schermo sopra. Lo accesi, creai un file word e cominciai a buttar giù parole. Quelle parole, raccolte in capitoli, riorganiz- zate e riscritte, avrebbero poi dato origine al mio primo romanzo. Aspettando il cielo, quindi, è essenzialmente il prodotto di uno sfogo, uno sfogo di tristezza, e tanta, tanta rabbia repressa.

La prima stesura, infatti, rispecchiava perfettamente la sua natura di sbriglio: era scritta in prima persona e piena

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di divagazioni personali su vari temi, spesso cattive e pungenti, spesso deprimenti, depressive. Era un materiale sconclusionato, senza una forma precisa, volutamente volgare e diffamatorio nei confronti delle persone coin- volte. Inizialmente, secondo le mie intenzioni, avrebbe dovuto essere un poema, di una cinquantina di pagine. E così è stato. Lo stampai e lo chiamai “Cronaca dal dopo rovina”. Fu osannato dalla mia migliore amica, ma rifiu- tato da un editore di Ravenna, il quale mi disse che pub- blicare una cosa simile mi avrebbe coperto d’infamia. Nonostante questo, alcune idee erano molto buone e, svi- luppate in maniera adeguata, avrebbero potuto originare un prodotto valido. Soprattutto le parti in cui rievocavo la storia d’amore, ormai finita, con la madre di mio figlio e la descrizione delle mie violente scorribande notturne per Faenza. Il suo consiglio era di utilizzare quel materiale per farne qualcosa di più compiuto, un romanzo. Così feci.

Riscrissi il tutto in terza persona, lo ampliai e... “Cro- naca dal dopo rovina” divenne il capitolo due e il capitolo tre di questo romanzo. Avevo bisogno ora di una storia, di altri personaggi. Mi ricordai le persone che mi erano state vicine durante il primo periodo del mio calvario, prima che arrivasse l’inverno a imprigionarci tutti. Mi vennero in mente le interminabili giornate estive trascorse con la mia guida spirituale, il vecchio capo indiano Pelle di Lupo, lassù in montagna, al Rifugio dell’Anima, sulla Balda, sacra terra del falco Moral che la veglia incessantemente. Mi ricordai quanto bene mi avessero fatto. Quell’estate, il Rifugio dell’Anima e la sua leggenda mi avevano fatto scoprire un nuovo modo di concepire la vita.

Decisi quindi, e so che male non mi avrebbe voluto, di parlare del vecchio Lupo e del suo mito, ma anche della

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sua situazione personale, della sua esistenza minata come la mia da una serie di disgrazie sfociate in una disillu- sione totale nei confronti di parecchi aspetti della vita. Decisi di raccontare le nostre giornate su al Rifugio, tra l’alcol, i discorsi deliranti, i pianti, le risate, le cazzate e le preghiere al Falco, quel Falco che sempre volava sulle nostre teste e ci dava conforto; il Falco, il Moral, partito per il cielo ormai tanti anni fa, ma che in quel cielo è ri- masto a svolgere il suo compito di guardiano, con onore e fedeltà!

Tra i personaggi principali inserii poi quello del figlio di Pelle di Lupo, vittima innocente di un destino crudele che l’ha reso uno di noi. Il titolo, Aspettando il cielo, mi venne in mente pensando alla nostra condizione infelice e al nostro sbatterci senza meta, in perenne attesa di qual- cosa che sarebbe dovuto per forza arrivare, prima o poi, di qualcosa che ci era dovuto, pensavamo, con una punta di supponenza.

Il romanzo ha quindi due anime, le due anime in cui è divisa la mia persona.

Da una parte c’è la sporcizia e il grigiore del racconto urbano, derivati da “Cronaca dal dopo rovina”; dall’altra, la natura viva e pulsante della Balda, la ricerca del pro- prio Io interiore, una lunga pausa di poesia, tra i monti, lontani dal caos e dallo smog cittadino, dove il tuo Io dorme sotto una prigione d’asfalto e merda di piccione.

Questo mio continuo dividermi tra l’ambiente mal- sano della città e la voglia di trovare il cielo sulla cima di un monte è racchiusa nei gesti e nei discorsi dei due per- sonaggi principali, nonché alter ego personali: Franco e Rocco.

Franco vuole fuggire e trovare un posto migliore; Rocco affoga letteralmente dentro ai tombini cittadini.

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Se Franco è debole, provato, sensibile, propenso al pianto, speranzoso, voglioso d’affermarsi, Rocco è duro come l’asfalto sul quale cammina, è cinico e cattivo come lo scritto in cui ha esordito; ha un odio profondo verso le marionette, le pecorelle della società, quelle che si ven- dono al sistema... oh, lui ce l’ha a morte col sistema. Fa- enza è teatro delle sue escursioni nottambule, con il fedele amico Peppi alla destra, via a far danni contro i pecoroni, a rompere e distruggere oggetti nei loro giar- dini, oggetti comprati solo perché ce li ha il vicino, e il vi- cino ce li ha perché li ha l’altro vicino, e l’altro vicino ce li ha perché li ha l’altro vicino ancora e via così, una ca- tena senza fine, una catena che lui vorrebbe spezzare, che il suo odio vorrebbe spezzare... È una lotta disperata con- tro la perdita dell’identità, alla quale sembrano andare in- contro tutti, nel sistema odierno.

Rocco lavora in un fast food, un dannato fast food, simbolo del potere capitalista, ritrovo delle marionette comandate dalla società, tutte lì a mangiare, perché fa moda, con le famiglie a fare le ‘‘false famigliole felici da spot pubblicitario”, solo per mettersi in mostra, quando magari (pensa sempre Rocco), nell’intimità delle loro case la moglie si fa sbattere dall’amico quando il marito è al lavoro.

Tutta questa frustrazione il buon Rocco la sfoga du- rante le passeggiate notturne; rabbia e frustrazione sì, ma che non gli impediscono di immalinconirsi davanti a un campo coperto di rugiada, nelle fredde ore del cuore della notte, o di perdersi per le vie faentine inseguendo il pro- fumo del pane infornato. Tutto ciò per ricordargli che pure lui è un essere umano, e ha sentimenti come ogni essere umano.

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Quando decisi di trasformare lo scritto più incazzato

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che abbia mai prodotto nel mio primo romanzo, la mia intenzione era quella di dar vita a una sorta di microco- smo (che va dalla mia Faenza alle campagne attorno, fino ai monti della Balda) in cui prendessero vita le azioni, le parole e i pensieri di personaggi in apparenza falliti, di- sperati (ognuno a modo loro), alla ricerca continua di qualcosa che non riescono a trovare; alcuni partono scon- fitti e preferiscono perdere senza provarci, vagando come spettri dentro ai loro tormenti, altri reagiscono con rabbia e sfogano il loro malessere in crociate notturne, altri an- cora sanno che quel qualcosa c’è, esiste, ma ancora non hanno la maturità per raggiungerlo e aspettano.

La maturità... quella maturità fondamentale che Franco invoca con forza, urlando al cielo, alla fine del romanzo. Quella maturità che prende la forma di una mano, necessaria per l’atto masturbatorio, necessaria per raggiungere il liberatorio orgasmo che l’impotenza a cui una vita di prigionia l’ha costretto non gli permette di avere.

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RINGRAZIAMENTI

Ringrazio Pelle di Lupo, il Falco, e i nostri giorni di poesia al Rifugio dell’Anima, che mi hanno dato la forza di andare avanti.

Ringrazio i miei genitori, Elvio e Daniela, e mia nonna, Maria, per non avermi mai fatto mancare nulla, e per avermi sempre supportato in tutto.

Ringrazio mio figlio, Mario, per essere nato.

Ringrazio Claudio Nanni, l’editore “matto”, il primo che ha creduto in me.

Ringrazio Marco Ferrari per la sua splendida introdu- zione, e la coppia Vanessa Turazzo / Giuseppe Iovine per il contributo alla foto di copertina.

Un ringraziamento speciale all’intero staff della Gin- gko, per il loro lavoro, la loro dedizione, e per aver fatto sì che questo romanzo non rimanesse un mucchio di fogli in un cassetto.

Infine, ringrazio in generale tutte le persone che mi hanno voluto bene, ma soprattutto quelle che mi hanno vo- luto male: senza queste ultime probabilmente non avrei mai iniziato a scrivere.

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ASPETTANDO IL CIELO

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