-Racconto originariamente pubblicato nella raccolta “Ravenna Amarcord” (Claudio Nanni Editore; 2014)-
LA VECCHIA CARLY, ANDREA, IO, IL CINì E L’AVVENTURA A LUCI ROSSE IN
QUEL DI BORGO TULIERO, FRAZIONE DI FAENZA
Va beh.... Ce ne stavamo tutti lì, nell’estate dei nostri dodici anni, stravaccati sul muretto del parco,
Borgo Tuliero, a grattarci perchè non avevamo molto di meglio da fare; proprio no. C’era Andrea,
vecchio amico ormai perso nel tempo, c’era il buon vecchio Cinì, accanto a lui, tutto sudato
nell’afa di giugno, e, ovviamente, c’ero io, lo scribacchino del trio, artistucolo da strapazzo che
buttava giù poesiole sciocchine sui tovaglioli fregati al bar, lì vicino. Adolescenti di un piccolo
paese dall’aria bucolica, affogato tra le campagne del faentino, dov’ anche il più colto parla solo il
dialetto romagnolo -e dialèt rumagnòl, boja ed giuda!-.... solo questo eravamo noi tre, all’epoca
dei fatti, solo tre adolescenti di campagna, che per nove mesi all’anno scendevano in città
-Faenza- a fare un bel bagno d’urbanità, scendevano per andarsene a scuola, quel maledetto
sbattimento di una scuola del cavolo, e non si trovavano più circondati dalle montagne, dai campi
agricoli e dalle case diroccate, NO!, ma da grandi palazzi case-di-ratto e condomini e cacca di
piccione nei vicoli e bottiglie rotte in cocci per la strada coi barboni che ti pisciavano addosso se
non stavi attento... Ed era proprio là, nell’urbanità faentina, che prendevamo coscienza di quella
che era la nostra gioventù, che venivamo a conoscenza dei pensieri e dei desideri della nostra
generazione, di quegli impulsi sessuali che i nostri vicini di banco sfogavano fissando il seno alla
professoressa giovane e piacente, immaginandosi scene pese nella loro giovane mente acerba. Noi,
i pulzelli innocenti di campagna, passavamo le estati, lassù nel nostro paesino, a giocare a
nascondino tra i filari nei campi, oppure a rubare le ciliege nella terra del contadinotto più ricco
-quello che aveva la villa, cavolo!-, oppure a girare in bici per i sentierini di terra diretti al lago
delle papere, o ancora per i monti a camminare coi cani in cerca di case abbandonate in cui
infilarci, e via e via e via, rubando legna al vicino per costruire una capannina dietro a una chiesa
sconsacrata ormai in disuso da anni, correndo quì e correndo là, piccole bestioline che se ne
inventavano di ogni, come raccogliere castagne per poi improvvisare una bancarella, davanti al bar,
e tentare di venderle per farsi i soldi e potersi comprare Super Mario per il Game Boy. Loro, i
teppistelli della “grande” (per noi lo era...) città, a tirarsene nei bagni o a fare confronti negli
spogliatoi, attendendo che iniziasse l’ora di ginnastica, cercando di spiare, col sangue alle tempie,
le ragazzine, nostre compagne di classe, nella stanza accanto, accatastando sedie su sedie per
raggiungere lo spioncino in cima al muro delle docce, e fissare le nude grazie delle loro lolite.
Loro, con le riviste pornografiche, che tenevano nella cartella, e ci facevano vedere all’intervallo,
parlandoci di roba bianca che ti usciva da sotto, se ti accarezzavi con forza, fissando quelle
donnine ignude e piacenti. E noi, tornati in campagna, con la testa appesantita e un pò sconvolti, ci
infilavamo nel serraglio dei cani, nel cortile di mio nonno, parlando di queste cose oscure e
perverse, mentre la puzza delle feci dei cani ci saliva al naso, e stavamo attenti a non pestare nulla.
Questo noi imparavamo, andando a scuola. Non ci importava nulla della storia del nostro mondo,
odiavamo la geografia, ci annoiavano i poeti italiani classici di migliaia d’anni prima, nessuna
nota per noi in nessun rigo musicale, ad educazione fisica erano ben altre le cavalline che
volevamo cavalcare; ci interessavano solo i discorsi dei nostri eruditi compagni di classe... E
quindi ce ne stavamo lì, adesso, nell’estate dei nostri dodici e inutili anni, a grattarci, con la scuola
finita da una settimana, pensando. Un’altra estate buttata via, tra giochi infantili e sciocchezze da
bimbini.... Cinì si stava morendo, morendo squagliato al sole, che colpiva assassino senza pietà.
Andrea, vecchia bestia perduta nel tempo, fissava il cielo a bocca socchiusa, e qualche anno dopo,
vedendolo così, gli avremmo dato del cannato. Io, forse il più sfigatissimo degli sfigatissimi,
avevo la maglietta incollata alla schiena, tutta bagnata, e i piedi marci dentro agli scarponi che mi
ostinavo a portare per le paranoie che già all’epoca mi affliggevano (camminare sulla polvere e
sulla terra con le ciabatte uguale a piedi sporchi e piedi sporchi uguale a microbi, ecc...).
Paranoico, ma fortunatamente non ancora depresso (almeno per qualche annetto). Ci grandinava
addosso il blues della noia, ma ad un tratto qualcosa successe. Due vie più in là, abitava la vecchia
Carly, ragazzona panzona, un bel rotolone di ciccia, e proprio quell’anno, nella nostra scuola, se
ne erano dette di pese sulla vecchia Carly, ragazzona panzona, un bel rotolone di ciccia. Per i
corridoi, giravano certe vocine, vocine che vedevano la vecchia Carly nuova paladina dei
ragazzetti furbetti. La sua conversione da “puritana campagnola tutta linda e pinta” a “vac###a da
postribolo faentino”, era avvenuta all’improvviso, come un fulmine a ciel sereno, e ci aveva
lasciato di sasso, a noi, che con la vecchia Carly si giocava fin da piccini al nascondino per le vie e
per i campi. Non starò a riportare, causa divieto dell’editore, ciò che si vociferava su di lei, vi basti
solo sapere che non era roba da libricino per bimbi. La vecchia Carly era sempre lì, con noi, in
estate, sempre lì nel nostro paesino, solo a due vie di distanza da dove ce ne stavamo a grattarci,
ora. Solo che non era più l’innocente ragazzina che tutti conoscevamo, almeno così si diceva
laggiù, tra i gas di scarico della grande metropoli. Fu così che Andrea, fu lui mi pare, che Andrea
si alzò, e cominciò a parlare. Parlava di farle pese, parlava di andare a trovare la vecchia Carly, e
di verificare la validità delle voci che su di lei circolavano. Partimmo, anzi, scattammo, tre giovani
bestiacce lorde di terra e puzzolenti di sudore, tre animalacci la cui purezza era stata contaminata
da nove mesi di porcate, tra i banchi di una scuola. Giungemmo sotto casa della vecchia Carly, e
suonammo il campanello. Rispose suo padre. “Oh, siamo amici della vecchia Carly, c’è la vecchia
Carly che deve venir giù a dirle pese?” “Oh, sono il babbo della vecchia Carly, c’è la vecchia
Carly che adesso viene giù a dirle pese!”, e la vecchia Carly venne giù a dirle pese. Ci trovavamo
ora al Circolo, il cui bar era chiuso la domenica, e ce ne stavamo seduti sulle panchine, nel retro di
quel vecchio edificio nella nostra cara Borgo Tuliero, con la Carly che ci parlava e ci raccontava le
sue cose furbette:
“Allora , boys , sono tornata adesso dal mare e mentre ero al mare sono andata con 'sto tipo no?
Ma sto figo della miseria che....guardate.....un fisico, due muscoli che pareva un torello, sto figo
assurdo, porca porcana, che.......mamma mia ragazzi, mamma mia....”
Noi, i tre fanciulli, stavamo ad ascoltare il suo delirio impudico, con le mani che tremavano
dall’eccittazione.
“Aveva quvindic’anni gente, quvindici, ma vi rendete conto che figata? Sono andata con uno di
quvindici! Allora, c’è, no, aveva quvindici anni ed io stavo nell'appartamento di sopra e lui di
sotto, no? Allora un giorno devo prendere il ‘scensore e lui pure lui deve prenderlo il ‘scensore, e
allora no? Fà, no? C’è... C’èèèèè... Viene allì e fa che lui deve prendere il ‘scensore, no? Quindi
al principio si fa finta di nulla, poi il ‘scensore 'riva giù e mo noi si sale, no? E mentre si pigia il
tasto per il suo piano uno sotto di me, lui inizia a toccarmi con le mani no? E inizia a baciarmi e a
dirmi che ci piaccio, c’è, e così slimoniamo e mentre il ‘scensore si apre al suo piano, chi mai cè lì?
Cè la gente che ci guarda istupita e noi allora ci stachiamo no? E guardiamo e ridiamo e io li
faccio anco la linguaggia alla gente no? C’èèèèè....”
E continuava e continuava, e noi avevamo le budella come il fuoco.
“Il giorno dopo ho visto anche il cameriere, dio, che figo della mastronna ragazzi miei, che figo
assurdo, dovevate vederlo, che strafigo, due braccia, dei muscoli, che pareva un torello, aveva
‘ciassette anni, no? E cosa ha fatto? Un giorno mi ha preso e mi ha infilato la lingua in bocca NO?
Vi rendete conto? C’è? Un ‘ciassette, capite? C-i-a-s-e-t-t-e... Ciassette, c’è, no? E quell'altro, il
quvindici, ha visto e si è ingelosito, e sono finiti a fare a botte, per me!!! Capito, NO? Mi sono
divertita molto, perchè io sono una libera, ma di quelle, ragazzi, di quelle che io vado al Max e in
una sera mi sbaciucchiolo tutti, io!!! Poi una volta siono andata no? A casa della Valentina la mia
amica, no? C’è! E c'erano anche tanti ragazzi, tantissimi, abbìmo dormito pre terra con i sacchi a
pelo, no? E a tarda sera io e la Valentina ci siamo levate dagli sacchi a pelo e siam passati di sacco
in sacco e abbiamo sbaciucchiolato tutti, vi dico sì, che abbiamo ficcato le nostre linguicine in
bocca a tutti, tutti bacini, sbaciucckkk sbacioccckkk sbarabolofokkk, lec lec lec, c’èèèè, NO! C’è,
capite, NO?NO?NO?NO?NI?NU?NA?NE?”.
A quel punto, noi non potevamo più resistere al fascino di quei rotoloni di ciccia che tante
esperienza avevan vissuto. Decidemmo di farle pesanti pure noi, con la cara vecchia e tanto buona
Carly. Timidamente, con grande rispetto nei confronti di quel sex simbol tutto grasso ed
esperienza, Andrea, vecchio amico morto da anni e anni, tentò di lanciare la proposta. Osò
chiedere alla vecchia Carly di Carleggiargly un limone in bocca, dietro il campetto da calcietto,
lassù nel giardino sul retro del Circolo di Borgo Tuliero! Lei cominciò a ridere, una risata
spavalda, grossa come la sua mole, davanti all’insicurezza di quel puro e candido agnellino che
non aveva mai toccato una femminuccia in vita sua. E la Carly s’alzò, gente, e la panchina mandò
un lamento, e la terra un rimbombo, mentre lei la dilaniava, passandoci sopra, diretta al povero
Andrea, ormai da troppi anni nella tomba scolpita dal tempo che non perdona... L’abbondante
concubina dei nostri sogni proibiti, prese il mio vecchio ex-fratello per la mano, e lo ssssstrascinò,
sempre ridendo, dietro al campetto da calcietto, tra le siepi. Rimanemmo io e il Cinì, ad aspettare
il nostro turno, morendo d’ansia da prestazione e di nervosssssso, il tutto esasperato dal gran caldo
che ci puntava lo schioppo contro, boja de zalmbèld! Ad un tratto, il Cinì si alzò in piedi, e vidi
che i suoi occhi lacrimavano. Stava piangendo. Non potevo crederci, ma il Cinì piangeva. La
tensione era troppa e il caldo pure, quindi il pòra Cinì piangeva! Rimasi un attimo a fissarlo, bocca
spalancata, improvvisamente dimentico di tutto il resto; solo al Cinì che piangeva come un bimbo
pensavo.... “Ma Cinì, ma ‘sa fai? Che ci è???” “Nonono... Sniffo.... Io non ci riesco, non ce la
faccio, come faccio, io non so fare, io non l’ho mai fatto.... Snuffo...” Mi alzai anch’io, e andai
verso il Cinì, mettendogli un braccio sulle spalle. Il sole batteva alto nel cielo, una poiana mandò
un grido, volando su di noi, mentre laggiù, nel campo della Bagatta, la villa diroccata abbandonata
da un secolo, un padre e un bimbo correvano assieme a due cani; uno era nero, l’altro era bianco
con macchie rossastre, dello stesso colore del sole. Noi ce ne stavamo lì a pensare a far esperienza
con le tipe, a soli dodici anni, per giocare a fare i grandi, attendendo il nostro turno per andare a
farci slinguazzare da una grassona, credendo di aver buttato via le nostre estati tra giochi nella via
o esplorando monti; mentre invece era proprio in quel momento, proprio lì seduti sulle panchine,
che stavamo buttando via il nostro tempo. E quando butti via quel tempo, l’hai buttato per sempre,
perchè quello è l’unico tempo che non tornerà mai. “Dai va là, Cinì, andiamo nella via a vedere se
c’è qualcheduno per giocare a nascondino, ti va?” Cinì tirò su col naso e fece sì col capo. “Bene,
amico mio, mio piccolo Cinì, lasciamo soli i due piccioncini, e andiamo ad impegnare il nostro
tempo con cose più serie!”.
E così andammo, e saremmo andati ancora per tanti anni, perchè fino ai sedici anni non toccammo
mai una ragazza.... eravamo troppo impegnati a giocare a nascondino, boja de gievàl!!!
Gianluigi Valgimigli
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