domenica 5 gennaio 2025

I MIEI RACCONTI - Pattaya Blues (2015)

  

-Racconto originariamente pubblicato nella raccolta “Ravenna in Viaggio” (Claudio Nanni Editore; 2015)-

PATTAYA BLUES
di Gianluigi Valgimigli

A Pattaya si vive di notte; il lungo viale che segue il mare, Walking Street, chiude al traffico, e i turisti si riversano in massa sulla strada, pronti a far bagordi fino al mattino e oltre, pronti a riempirsi d’alcol lo stomaco fino a scoppiare, pronti a fottere ragazzine fino a farselo cadere, pronti a tirare di naso fino a sfondarselo...

Cammino in mezzo alla folla, seguendo i miei nuovi amici; loro ridono e si guardano in giro, indicano una tipa seminuda davanti a un pub, ne indicano un’altra, mentre io guardo in basso per paura di pestare qualcosa, un piede o una mano di qualche ubriaco riverso a terra, nel marasma della notte thailandese.

I ragazzi che mi accompagnano (turisti italiani come il sottoscritto) li avevo incontrati prima, nell’albergo dove alloggio; era andata più o meno così: me ne stavo seduto al bancone della hall, birra in una mano, a parlare del più e del meno col gestore, un italiano sulla quarantina che aveva lasciato l’Italia per aprire la sua attività a Pattaya, dopo aver visto la precedente perirgli davanti agli occhi, per colpa delle troppe tasse, della crisi, e le solite storie.

Erano entrati questi due, ridendo e berciando, accompagnati da due ragazze mezze nude che sculettavano tutte contente, e si erano diretti verso le scale, per salire in camera a divertirsi.

Ad un tratto il gestore mi aveva piantato il faccione sotto agli occhi, sussurrandomi: “Quelli là non sono donne...”, mentre con un fischio avvertiva uno dei due ragazzi, rimasto indietro, facendogli un gesto esplicito. Quello aveva aggrottato la fronte sgranando gli occhi, si era voltato a guardare il compare, ormai sparito nei piani superiori con le “donne”, e si era tuffato al suo inseguimento. Dopo qualche minuto, si erano sentiti degli sbraiti rochi partire dal piano di sopra, e i due viados erano scesi inviperiti nella hall, urlando contro i due ragazzi nella loro lingua, e mandandoli a quel paese. “Sono arrabbiati perché hanno perso del tempo” mi aveva detto il gestore “potevano andare con altri clienti, invece quei due gli hanno fatto perdere del tempo; e quindi cliente perso, guadagno perso...”. Alla fine, i due ragazzi erano stati costretti a pagare i viadoni, che altrimenti non avrebbero avuto alcuna intenzione di sloggiare. Per consolarsi, si erano seduti al bancone a spararsi una birra e, tra una chiacchiera e un’altra, me li ero fatti amici (Michele e Andrea, i loro nomi). E così, eravamo usciti assieme a far baracca allegramente, in cerca di qualche buona pista da seguire; e siamo qui adesso, nel centro della vita pattayese, giovani, disponibili, e non ancora imbriaghi.

I miei amici adocchiano un posticino che sembra niente male, un bel night club grande e illuminato, si voltano verso di me e lo indicano col dito; gli faccio segno di andare e andiamo. Penetriamo in un muro di gente, fuoriusciamo dalla parte opposta, e siamo dentro al locale. Il salone principale è una grande stanza con divanetti rossi ai lati, tavolini e sedie al centro, piano bar in fondo a sinistra, e un piccolo palco alla

parte opposta dell’entrata. Anche qua c’è gente ovunque: turisti spaparanzati sui divanetti, intenti a sollazzarsi con qualche ragazza locale, gentaglia che beve, schiamazza, e canta, mentre una donna se ne sta stesa sul tavolino attorno al quale siedono, e si lascia versare la birra sopra alla pancia scoperta, incitando l’arrapato di turno a succhiargliela dall’ombelico. I miei bravi compari sono tutti eccitati, sicuri di rifarsi dalla fregatura di prima; prendiamo posizione a un tavolino verso il centro del locale, e un thailandese basso, magro e moro, ci segna le ordinazioni. Nel tavolo accanto a noi, siedono tre tedeschi che schiamazzano in modo molto fastidioso: uno di loro, una specie di orso grande e grosso, è completamente ubriaco, e fa un casino infernale, battendo sul tavolo con una mano e ridendo come un folle. Mi innervosisce abbastanza, ma i miei amici non sembrano farci molto caso. Arrivano i cocktail, e cominciamo a bere. Una ragazza si fionda subito al nostro tavolo, prende una sedia e si mette in mezzo ai miei compari; comincia a fare proposte che non trascrivo, e noi tre ridiamo e brindiamo alle sue parole. Dopo tre giri di bevute (ovviamente offerti anche alla nostra amica), la mia testa comincia a girare, e tutto si fa più leggero, prendendo una piega diversa. Le risate del grosso bestione tedesco alla mia destra, si mischiano a quelle della nostra ospite, intenta a farsi palpare dai miei compagni: Michele le tasta il petto, mentre Andrea le fruga tra le cosce. Io butto giù ancora, e mi sento carico a palla, mi sento di poter essere il migliore in qualcosa, una volta tanto; mi sento di potermi realizzare, di poter trovare una collocazione nel mondo, mi sento di non essere più sciupato, nulla è stato sprecato, nessuno fa più male a nessuno. C’è della musica locale alta adesso, e della gente che balla, delle donne con le gambe di fuori che ballano sui tavoli, a piedi nudi, le regine puttane della balera a luci rosse, corpi che si strusciano tra loro, masse di capelli neri che si agitano; io mi alzo, e mi unisco a loro.

Ci sono due vecchi che ballano, ognuno tiene un cocktail in mano, e sculettano arzilli come giovincelli. Mi notano, e mi sorridono, mi danno pacche sulle spalle, mi abbracciano: siamo tutti felici, siamo tutti amici. Sono entrambi italiani, e sanno che anch’io lo sono: mi hanno sentito parlare al tavolo, poco prima. Uno dei due mi indica il sedere sculettante di una ragazza davanti a lui, agita le mani e dice: “OOOOOOh, quando vedo queste cose qui, io.... MMMM... questa sì che è vita, ragazzo mio!!!...”. Ha voglia di parlare, diventa molto confidenziale; l’alcol rende confidenziali le persone. Mi racconta un po’ della sua storia, urlandomela all’orecchio sinistro, e io ascolto realmente interessato, scuotendo il capo. Dice che lui viene qua ogni anno, a farsi le vacanze, a godersi la bella vita, perché lui vuole essere giovane, si sente ancora giovane, e soprattutto ha voglia di farsi delle giovani: sua moglie è brutta e vecchia, dice, e l’abbandona a casa, si butta tutto alle spalle per due settimane, e si fa tante ragazze thailandesi. “Dopo un po’ a me e al mio amico, ci passa la voglia” dice “non ce la facciamo quasi più, perché qua se ne vuoi puoi prenderne da ogni parte, ed è una gran bazza, perché con venti euro te la tieni un giorno e mezzo; a volte bastano dieci per un’intera notte, ed è una gara tra me e lui a chi riesce ad avere di più spendendo meno... poi ce ne sono alcune, che basta che le paghi la cena o le offri da bere e ci stanno”. Sua moglie non lo sa, sua moglie non sospetta nulla: crede che lui e l’amico (suo vicino di casa, a Novara) siano partiti per la caccia alla beccaccia, che in

Piemonte va da inizio ottobre a fine dicembre, e siano ora in un capanno in montagna, a menarselo a vicenda parlando di uccelli. E chi sono io per giudicarlo? Ci abbracciamo ancora, e ridiamo di gusto, poi il suo amico gli fa un cenno, e gli indica una ragazza dall’altra parte della sala, che in risposta alza la mano e sorride. “Oh, io mi butto, che piacere averti conosciuto, Ciao Ciao!” mi saluta e se ne va, sparendo col suo compare in mezzo alla folla; buona caccia, amico mio, piglia tante beccacce!

Gironzolo ancora un poco, mi sento ancora carico, ho ancora tanto da dare, sono solo all’inizio. All’improvviso mi accorgo che c’è un pianoforte verticale, appoggiato a una parete, vicino al bancone del bar. Se ne sta lì, tutto zitto, e io mi domando “lo faccio o non lo faccio?”, per poi accorgermi che quella sera non ci sono problemi, che tutto va bene, e quindi lo faccio. Mi siedo davanti allo strumento, e inizio a suonare qualche canzone che conosco: suono “High School Confidential” di Jerry Lee Lewis, e pesto i tasti come un folle, con il rock and roll che mi distrugge le vene, credendomi un grande, una star, credendo che tutta la gente attorno a me stia ballando per causa mia, quando invece forse non mi sentono nemmeno. Canto, e non mi interessa se poi lo faccio male, perché lo faccio credendoci, lo faccio con passione, col cuore, e quindi va bene lo stesso. Sparo un po’ di Gimme a Pigfoot, e sono sicuro di stare un po’ troppo alto, ma non importa; mi credo Jimmy Yancey o Pinetop Smith improvvisando un po’ di boogie, sbagliando e incespicando, ma è tutto così perfetto. Pom-po-pom-po, la mano sinistra tiene il ritmo e, tu-ti-tin-ti-ti-tun, la destra si lancia in frasi blueseggianti e jazzate a non finire. Leroy Carr, Fats Domino, Little Richard... suono e me li passo tutti, rileggendoli a modo mio; credendo di farlo, almeno... Nel mentre, qualcuno mi accarezza le spalle, mi passa una mano sul collo, ma io voglio suonare e non ci bado. Alla fine smetto, perché mi stufo, e comunque sia andata, Art Tatum può baciarmi le chiappe! Nessuno ha detto niente, chi voleva qualcosa è stato respinto dalla mia voglia di fraseggiare coi tasti, e quindi mi alzo e torno al tavolo dai miei amici. Ma loro non ci sono più, se ne sono andati con la tipa, e io me la sono cercata. Chi ha pagato i miei cocktail non lo so: forse sono stati loro, forse no, ma non mi importa di chiedere, nessuno reclama nulla, e io mi sento in pace con la mia coscienza.

Il tedesco grande e grosso è in piedi, e sta importunando un signore di mezza età seduto al tavolo vicino, con una giovane thailandese accomodata sulle gambe. Ubriachissimo e molestissimo, l’omone cerca di toccare la ragazza, e il suo cavaliere non lascia correre: fa per rispondere, e il tedesco si gonfia di brutto e vuol attaccar rissa; i suoi due amici vengono a trattenerlo e a respingerlo indietro, cercando di calmarlo. Io ho visto abbastanza, e me ne vado a spaparanzarmi su un divanetto rosso. Subito si siede al mio fianco una ragazza carina da matti, e mi mette un braccio intorno al collo, mi saluta e sorride: a Faenza le ragazze non sono così carine e disponibili; a Faenza ti guardano da lontano arricciando il naso, e ti snobbano di brutto, per andare poi a finire ribaltate nella macchina di qualche sconosciuto. La mia nuova compagna ha lunghi capelli neri e lisci, è magrolina e piccola piccola, tanto che potrebbe stare nelle manone del tedesco. Siccome mi piace parecchio, sento pizzicare qualcosa nel mio bassoventre, e le offro da bere. Tra un sorso e un altro mi parla, in un inglese impacciato e scarno; dice di chiamarsi Mali, e che se le offro un secondo

giro mi porta via con lei. Siccome ci tengo ad essere rapito, ordino nuovamente, e lei comincia ad andare più a fondo con le carezze, e mi parla nell’orecchio di cose che censuro. Poi mi sento nervoso all’improvviso, e voglio scolarmi un altro bicchiere; per non far la figura del poveraccio, offro un altro giro anche a lei.

Mi accorgo che più le guardo il viso, più m’innamoro: ha qualche lentiggine lieve sul nasino, proprio come quelle che aveva Sara, nella cara e vecchia Borgo Tuliero, mentre mi correva davanti nell’estate del tempo perduto, che passa per non tornare... e adesso lì, a Pattaya, la ritrovo la mia Sara, un po’ cresciuta, un po’ più birbantella, ma è sempre la mia Sara; e mi viene il magone, e mi viene la nostalgia della vecchia via in mezzo ai campi del faentino, splendida e lucente sotto al sole d’estate: l’intero mio mondo era quello, altro che Walking Street e le sue bische!

Non riesco a farlo, non posso essere così crudele, non qui e non adesso: Sara è un fiore che non va colto, lei è la Vergine Sovrana delle Eterne Bambine della Via, e tale deve rimanere, candida e pura eternamente, guai a violarla, guai... Quindi lascio stare, saluto e mi alzo; lei sgrana gli occhi, e ci rimane male perché ha perso del tempo. Me ne vado e la pianto lì a mandarmi a quel paese: proprio come i viados nell’hotel, anche lei aveva perso il suo prezioso tempo. Io mi accorgo che è da anni che perdo tempo, viaggiando sempre, scappando sempre da tutto, andandomene lontano, per paura di affrontare ciò che mi spetta, per paura di rimboccarmi le maniche e cercare di migliorare la situazione, per paura di avere dei doveri...
Mi incammino adesso lungo Walking Street, le risate e il casino dei turisti ubriachi a far da sottofondo alla mia marcia, e mi sento terribilmente fuori posto. 

Gianluigi Valgimigli

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