Le seguenti poesie sono state tutte scritte da me e pubblicate a partire dal 2009 a oggi in varie raccolte edite da editori del territorio emiliano-romagnolo.
Gianluigi Valgimigli
Caspita, mamma, è tornata la guerra
e adesso non c’è più scampo…
No, cara mamma, sarà impossibile questa volta uscirne;
la mia bimba dorme sotto un lenzuolo macchiato di sangue
e sono costretto a imbracciare il fucile:
ogni volta che sparerò un colpo
giuro, sergente, lo farò per lei, solo per lei
In tempi di guerra, è molto difficile campare
se non sei sicuro di aver colpi in canna
Beh, in questi giorni di rovina che ammazzano il sonno,
è quasi impossibile sopravvivere
se il tuo fucile è scarico e le munizioni son finite;
sergente, la prego, mi aiuti lei:
conceda a questo povero disgraziato
un’altra scatola di cartucce
Tesoro, io lo so che il blues è fatto di centralini occupati
Sì, amore, so benissimo che tutta questa dannata pioggia di blues
non è altro che un insieme di centralini occupati e linee intasate;
però, accidenti, è mai possibile che un povero uomo in guerra
non debba mai ricevere una telefonata?
Sergente, la scongiuro, mi chiami lei e camuffi la voce:
se non puoi vedere il volto, puoi fingere che sia chiunque
Questo bunker sotterraneo in cui mi occulto dal nemico
è umidiccio, puzza e ha le pareti ricoperte di una strana roba bianca
Questo sporco, stretto, bunker sotterraneo
in cui cerco di scordare che il nemico è sempre in agguato
mi fa rimpiangere la tua calda e accogliente dimora;
sergente, la prego, mi permetta di uscire: sono così insoddisfatto,
depresso e ho pure paura di beccarmi una qualche infezione
Oh, sergente, ho sparato troppi colpi
e adesso sono tanto stanco
Sì, sergente, penso di aver sparato abbastanza colpi
e credo sia arrivato il momento di deporre il fucile;
addio, me ne torno sui miei passi col primo treno del mattino
e strada facendo mediterò su quanta inutile sofferenza creino le guerre
Cos’hai fatto, tesoro, mentre il tuo uomo era in guerra?
Su, dimmi
Cos’hai fatto, amore caro, mentre il tuo uomo combatteva in guerra?
Hai fatto quello che ti riesce meglio, furbetta!
Quando tornerò a casa e ti troverò tra le braccia di un altro,
ti sembrerà di aver visto un fantasma;
e forse sarò proprio un fantasma,
tornato dalla tomba per tormentarti in eterno
Casanova Blues e Monologo di un’amante di Casanova
CASANOVA BLUES
Nella mia carne brucia eterno l'amore che ho a voi donne dedicato
la passione dilaniante dell'Edipo in cerca di una madre
la cui salma naviga per i rii veneziani, componendo sonetti per le prossime amanti
o riposa quieta dentro ai letti di cento contesse, in estasi dopo un'ora d'amore
lasciando loro un pezzo della propria anima, sotto al cuscino;
io ricordo, i volti e i sorrisi di ogni bimba amata
i lunghi capelli neri di Eleonora, contro il mio viso...
è strano pensare a come loro diffondano voci sulle mie qualità e sui miei attributi
ma scordino spesso il colore dei miei occhi
o le carezze delle mie mani, sui loro volti vogliosi di eros...
lievi, lievi, lievi carezze per non far loro del male
loro, i fiori rinchiusi nella grande serra ch'è il mio cuore
loro...
Sara, Antonella, Maria, Debora, Selene, Clarissa, Alice
Giulia, che rideva delle mie facce buffe, mentre mano nella mano
la conducevo, nella calda sera d'Agosto
e Francesca, la più bella di tutte, tra le cui braccia ritornavo infante
e baciavo i suoi seni come in cerca di cibo,
riscoprendo un passato mai vissuto.
Donne d'Italia, Donne di Francia, Donne di Russia, Donne di Spagna, Donne d'Europa, Donne del Mondo
io vi ho amate tutte, ad una ad una, a modo mio
ogni goccia del mio sangue è ribollita per voi
per Voi
che ora forse vivete di stenti una triste vita
accanto a un uomo che la notte, nel letto, vi dà la schiena
e ripensate al mio amore solo come a una piacevole avventura...
Per Voi e a Voi, Io, Giacomo Casanova
per sempre dedicherò tutta la poesia che il mio cuore sa elargire.
MONOLOGO DI UN’AMANTE DI CASANOVA
Nei suoi occhi mi sono specchiata, e mi son vista donna
donna in grado di capire le poesie di quel poeta
ho concesso alle sue mani di toccarmi, di prendermi
ho pregato, e ho supplicato:
oh, mio piccolo giardiniere, annaffia il fiore
segui il sentiero che porta al cuore del bosco
non ci sono più rovi, e la via è sicura adesso
puoi vedere le stelle nel cielo
e ognuna di esse grida il tuo nome,
nel momento in cui la danza scatenata
consuma i piedi ai ballerini
e la rosa bianca arrossisce, per non schiarir mai più...
Ho scelto la tua carne, ho scelto il tuo sapore
perché tu eri uomo, mentre gli altri mendicavano
dando calci alla porta della mia dimora,
quando invece per aprirla, bastava una carezza...
...l'estasi ha raggiunto il culmine
la notte non è mai stata così calda;
amore, il battito del tuo cuore, d'ora in poi,
scandirà le mie ore future...
E vagando per corridoi bui
o cimiteri vuoti a metà novembre
quando la festa dei morti è ormai finita
e i parenti sono in pace con l’anima loro
la mia testa pesante piena di bugie
fatica a star dietro ai tuoi tradimenti …
… ma non c’è nessun problema
mi stavo solo innamorando …
Con una flebo attaccata al braccio
penso alla tua bocca lordata da altri
il pavimento si sta allontanando
mentre sui muri giallastri come il vomito
stanno appesi i ritratti dei tuoi dolci amanti;
il sesso non mente: l’uomo è nato per essere coglione
e la donna per essere puttana …
… ma non c’è nessun problema
mi stavo solo innamorando …
Sveglio da due giorni
col fantasma d’un vecchio amico
che non mi dà pace blaterando e blaterando
di antichi sposalizi e rapporti fugaci
bruciati in fretta dietro alla collinetta
di un campo sportivo, in estate;
avevamo parlato di matrimonio
ma matrimonio cosa?
il matrimonio è il modo in cui una donna
deruba un uomo …
… ma non c’è nessun problema
mi stavo solo innamorando …
Mi presi la tua verginità
sicuro di essere io il campione
sicuro che ti avrei vista per sempre
accucciata ai miei piedi
ma ho perso il colpo prima d’andare a segno
e ora tutte le mie perversioni
se ne muoiono in un fazzoletto …
… ma non c’è nessun problema
mi sono solo innamorato.
25 anni nel cesso
tiriamo lo sciacquone
Faenza non ha voluto
Faenza non ha capito
il suo antipatico cantore
Faenza è troppo presa dagli smerci sessuali
adesso
porche schifose dai denti cariati
ballano e fanno orge
sulle scale del duomo
le puttane da quattro soldi
(culturalmente formate al Grafico)
appoggiano le schiene nude
contro i graffiti sul muro
del sottoscala ferroviario
e si concedono beate
ridendo, godendo e vomitando sperma
sui loro genitori a casa ad aspettarle;
le ragazze diventano selvagge
proprio come in un porno
(anzi, meglio!)
si accaldano e si contorcono
si graffiano e si smembrano
si squagliano e si stuprano
che puoi dire più di questo
o antipatico cantore
(falle pese! falle pese!)
le ragazze partono per la caccia grossa
fanno le turche al parco Bucci
sempre con qualcosa in mano o in bocca
si spogliano davanti alle scolaresche
in visita al sabato mattina
poi si tuffano nell’acqua sporca
tra la merda delle anatre
dei cigni, dei pavoni e dei lucci
e urlano sboccate
“Chi viene a farsi un bagno con me?
Lavoro sodo, costo poco e sto zitta!”
Le ragazze sono sempre più selvagge!
a piede libero corrono affamate
in cerca di qualcuno
che soddisfi loro l’appetito
che riempia loro la pancia
che colmi loro il buco
che sia disposto a concedergli
tutto se stesso
Sempre più selvagge!
abbaiano e latrano
scoreggiano e bestemmiano
insultano e pretendono
Dammi una vangata! Dammi una vangata!
la loro bava colante
ricopre le cappelle
ormai stanche e sudate
sanguinanti e spellate
giunte alla fine
di questa lunga
lunga
lunga
lunga
notte
…
25 anni nel cesso
tiriamo lo sciacquone
su questo mare di merdate
(La Decalogia del Dolore)
CAP. I - Sei ancora qui
Sei ancora qui; ti nascondi negli angoli bui della mia stanza e, come un avvoltoio famelico, rimani ad osservarmi – sento il tuo respiro, ma non ho il coraggio di scacciarti –; quando poi mi addormento, mi vieni vicino, sul letto in cui ti feci mia, una sera di giugno; un tempo, quando ancora resistevo, sentivo soltanto il rumore dei tuoi passi nel corridoio: ciabatte rosa, avanti e indietro, dalle due alle sei. Ma adesso, adesso ho capito che non ne uscirò vivo: una di queste notti mi ucciderai, così come io ti uccisi in quella calda e fottuta sera di giugno.
CAP. II - Sborra nera
Al cinema le sale sono sovraffollate; ti ho cercata ovunque, ma non sono riuscito a trovarti: la cosa più triste è che sapevo che eri lì… Sono uscito nella notte e tutto era così nero: le casediratto lungo il viale, il volto d’una puttana all’angolo, i miei vestiti… la mia anima… Questa volta ti ho minacciata più del solito; ma io ti amo, ho bisogno di te: non capisci che sei tutta la mia vita? L’orgasmo è sempre più duro da reggere – sborra nera – adesso che il muro s’alza d’una fila al giorno e il sole è ormai tutto coperto.
CAP. III - La notte del rifiuto
Vivo in un oscuro seminterrato; per andare al cesso, devo oltrepassare una stanza d’ospedale, dove vecchi malati si lamentano, intubati, abbandonati su letti che nessun infermiere cambia mai; la scorsa notte, mi scappava proprio forte, ma non potevo entrare: un paziente impazzito bloccava l’accesso e, con un bastone in mano, minacciava d’ammazzarmi. Ho telefonato alla mia donna, chiedendole aiuto; mi ha risposto un uomo, con voce arrogante: “Smettila di spezzarci il ritmo, non ne possiamo più: a questo punto siamo disposti a passare per vie legali!”… Costretto a tenermi tutto dentro, non potendo scorporare, ho pianto disperato per l’insoddisfazione prolungata…
CAP. IV - L’amore è una questione di dadi
“È tutta colpa della sua famiglia, vero?”
“Sì, quei maledetti vogliono opporsi al nostro amore…”
“E dove la tengono rinchiusa, esattamente?”
“Nei sotterranei dell’albergo di cui sono proprietari; tesoro dolce, vita mia, chissà quanto avrai freddo in quell’oscura prigione, senza il calore del tuo piccolo paladino innamorato…”
“Questa è la seconda volta?”
“No… è la terza… L’ultima volta ci sono andato vicinissimo: sono morto contro suo padre; quel vecchio porco mi ha castato due fireball di fila… Questa volta, però, dovrei farcela, ho perso un casino di tempo a livellare: dal 5 sono salito al 12!”
“Tanto decidono i dadi…”.
CAP. V - Tesoro, tanto tempo
Tesoro, tanto tempo, troppo tempo, tentando; tedio, tristezza, turbamento, tumore, terrore, tradimento, telefonata, tensione, trauma, tragedia; tatticamente ti tenevo tranquilla, temendo tumulti, testardo: tutto tracollato… Tesoro, traviata, ti trovasti totalmente travolta – troia! –: tana trapanata, tappata, tumefatta, tendini tesi, turpi trastullamenti, tradizioni travisate, termini triviali, tavolo traballante; tornai troppo tardi… Tesoro, ti temo tanto, tremendo tormento, tragicomico tramonto tombale, taccheggiatrice tacciata: tutto ti tentava! Tesoro, troppi traffici, tu tradisci tranquilla: tresche temporanee, transitorie trombate, tenerezza tristemente tabuizzata… Tesoro, talvolta, travagliato, trucemente ti tartassavo – tende tirate! –; tu, tremando, tramavi truffe, terribili trabocchetti, torbidi tranelli, tattici trucchi… Tesoro, tanto tempo, troppo tempo, tentando…
CAP. VI - Cassonetto scassato
Cassonetto scassato, ho scavato un fossato per infossare l’amore, mentre tu ridevi reagendo ad anni di soprusi, mandando tutto in rovina, con in mano un paio spaiato di ciabatte insabbiate; stupito strappai strenuamente quel paio spaiato dalle tue mani mollicce, poi stremato ti dissi: “D’accordo, scordiamo l’orchestra!” e depresso decisi di desistere dentro. Ora rincaso solo, soltanto il cane mi accarezza la notte: senza un senso sensato, è finita di nuovo; fazzoletto sozzo ti sazio con figli sprecati: chiamali come vuoi. Cassonetto scassato, ho scavato un fossato per infossare l’amore: non l’avessi mai fatto, sarei ancora il tuo padre padrone.
CAP. VII - Scompigliare languide impressioni venatorie
… cancellini che si aprono se infili soldi in una fessura: messi 180 euro; mia moglie: “Mettine pure altri, che importanza ha? Fai 200, anzi: 210, via!” / “… t’entrano nella testa… usano un visore, roba della Sony, un tempo era un videogame: vedi in prima persona dentro la testa della gente, vedi ‘sta grande stanza, piena di cianfrusaglie: tutti i ricordi, la cultura e il bagaglio d’esperienza che uno s’è fatto; puoi distruggere tutto, in modo da rovinare un tizio e renderlo scemo, vuoto…” / mia moglie slinguazza l’amante alla luce del giorno: io, spensierato, scherzo con loro e chiedo se c’è posto...
CAP. VIII -
IN FASE DI SCRITTURA
CAP. IX - La virgola mancante
“Ciao Gianluigi!”
“Ohi, come va? Tieni, questo è per te!”
“Oh, grazie! Beh, molto gentile, non dovevi…”
…
“Bene, dai! Cosa facciamo, allora… entriamo?”
“Mmmmhhh… sì, dai!”
“Prego: prima le signore!”
“Ah… ok… aspetta però, un attimo…”
“Dimmi…”
“Non chiudere la porta, per piacere, lasciala accostata…”
“O-ok… qualche problema?”
“No, è che… poi, potrebbe non riaprirsi…”
CAP. X - Quando saremo guariti
Quando saremo guariti
perché tanto prima o poi guariremo
allora potremo rincontrarci;
tuo padre avrà smesso di violentarti,
e il mondo apprezzerà i miei deliri;
le nostre vite avranno finalmente un senso:
capirai il mio dolore e i miei silenzi,
e io capirò tutto l’impegno
che mettevi in ogni singola cosa…
Quando saremo guariti
non permetterai più agli altri
di decidere per te;
io farò solo scelte giuste,
e non avrò più problemi
a dirti ti amo;
potrò guardare una lametta da barba
senza avere brutti pensieri…
Sto cominciando le cure per te:
aspettami, amore mio
non dureranno a lungo…
Mi hanno detto:
“Se vuoi conquistare una donna,
la cosa migliore è mostrarsi nudo
al suo cospetto”
Sì, sono proprio venuti a dirmi:
“Se vuoi che lei ti muoia ai piedi
la cosa migliore è svestirsi di tutto
in sua presenza”
Mi sono spogliato nudo in un bar
gestito da una bella bionda
ma l’unica cosa che ho ottenuto
sono i suoi insulti
e gli scherni dei clienti
Il Piccolo Hotel mi ha sbattuto fuori
perché la mia presenza
inquietava la cameriera
Non so se mi credi,
eppure il Piccolo Hotel
mi ha davvero sbattuto fuori
nonostante avessi già
pagato il mese
Quella piccola e dolce cameriera
non riusciva a sopportare
le tante ombre del mio sguardo
Il Lupo ha perso il pelo
e anche il vizio
la Signorina Casalinga
inventa nuove ipocrisie
la Pittrice Mancata
si fa sgrillettare dall’amica accalorata
la Cuginetta Furbetta
si prostituisce su internet
Treccine D’oro
esiste solo se la sogno
la Terra Arsa dai Laghi Costellata
è stata scoperta da un altro esploratore
Sunny Marshout
ha abortito di nuovo
la Mia Tendinite
peggiora di giorno in giorno
ma il Falco, per fortuna,
è ancora là…
Ho imparato a disilludermi
non volevo più essere triste
proprio così
sono stato costretto ad
imparare a disilludermi
proprio perché
mi ero stufato
di essere triste
Pontesanto,
uccisa la mia passione in un pezzo di scottex
sciupati milioni di figli che mai avranno un nome;
non riesco a capire perché
dobbiamo essere così deboli
Pontesanto,
falsi ricordi creati per ricordare
assurda malinconia per un’epoca inventata;
unica prova della sua esistenza, un pezzo di scottex sporco
che galleggia dentro il water
Pontesanto,
le offese e le umiliazioni non sono dimenticate:
per il vecchio padrone sono un inutile lascito ai posteri
la rovina di una stirpe fino allora perfetta;
lui tutta la vita ha pensato solo a seguire ordini,
senza rincorrere inutili chimere
aiutato dalla mancanza di ambizioni
Pontesanto,
minuscolo insieme di case
tra le campagne della periferia imolese;
un paio di persone attende la morte,
vivendo la stessa identica giornata da anni
Pontesanto,
maggior attrazione turistica, le bestemmie
dei vecchi che giocano a carte al circolo;
un pazzo piange perché
vorrebbe con tutto il cuore,
ma è la mente a comandare
Pontesanto,
pubblico lavatoio dimenticato nel centro del paese,
lordato di graffiti e abbandonato da anni;
ormai le lavandaie sono tutte morte
e anche quella ragazza vergine e innocente non esiste più:
adesso ha capito come fare strada nella vita
Pontesanto,
ultimo posto che dovrei visitare,
soffri con me, piangiamo assieme;
percorro le tue strade e sono solo, rassegnato:
ho accettato tutto, adesso,
ho capito tutto, adesso;
sono un splendido esemplare di uomo adulto
che ha imparato la lezione
Se fossimo stati in due
le cose sarebbero finite meglio
ma io ero solo, sono sempre stato solo
anche quando ti stringevo fra le braccia;
ti confessavo i miei sentimenti come mai avevo fatto
e mentre ti guardavo negli occhi
non vedevo il tuo amore per me
ma bensì il riflesso del mio
Dunque, i miei amori terminano sempre
nelle stagioni meno opportune
quando il clima non può far altro
che amplificare il mio dolore;
pensandoci bene, potrebbe essere positivo:
almeno il tempo non mi piglia per il culo,
come invece hai fatto tu per ben due anni
Complimenti, ti meriti proprio un applauso:
mi hai usato per fare della mia debolezza, la tua forza
riscatto nei confronti di una vita ai margini
e adesso ridi, ubriaca a una qualche festa per truzzi
finalmente parte di questa società, una pecora tra le tante
mentre io lascio
che ogni mio dispiacere
mi scivoli addosso
ammazzando qualsiasi illusione
57 è il numero totale
me l’hanno mostrato
le mie ossessioni
57 è il numero finale
i fantasmi che mi tormentano
me l’hanno detto in sogno…
Io e la mia bambina
viviamo al numero 57
di via dei sogni infranti;
al mattino mi lascia solo
per andare a far la spesa
e ogni sera rincasa
con un amante diverso;
mentre lei lo soddisfa
mi obbliga a guardare:
signore, abbi pietà,
lo sai che non ho colpa!
Cerco di pensare
a qualsiasi altro numero
ma il 57 è subito lì, dietro l’angolo
e non c’è modo di lasciarlo…
“Ok, magari è momentaneo, poi se ne andrà”
ma è solo un’illusione,
e più passano le ore,
più me ne accorgo
Tesoro, abbassa una buona volta
quella maledetta gonna
così non ce la faccio più
e pure gli amici ora mi sfottono;
è dura scegliere di vivere
con una dolce Signorina Casalinga
ma non sono riuscito ad evitarlo:
quando l’ho vista, signore,
la mia testa ha smesso di ragionare
e ho capito che ero suo
Amore, ti prego,
chiudi le gambe
mi scoppia la testa
la notte non dormo
ma non piglio più pesci
perché ho la canna rotta
e l’ossessione del 57
rimarrà impressa nella mia mente
e mi accompagnerà per ogni giorno
che mi resta da scontare
in questo stanco mondo
Il giorno che G. ci lasciò
era la festa della mamma
una mimosa sporca di sangue
nella sua mano destra
l’ambulanza sotto casa, a sirene spente
non c’era più motivo per tenerle accese
io stavo al caldo, nel mio letto, al piano di sopra
facevo l’amore con una donna, godevo
e mentre venivo, G. se ne andava
...le dolenti note alla ceralacca
di Charley Patton
uscivano da un vecchio disco,
fondendosi con le urla e le risa dei bambini
nelle eterne serate della Via Nuova,
mentre correvo di sotto
nel cortile del vecchio Panzone Rigonfio -mio nonno-
a giocare con l'unica vera donna della sua vita
la Dora, cagna suprema, che era viva e abbaiava al vento,
e ti dava la mano, e le davo la mano,
e la sua era una stretta più sincera
di quella di qualsiasi essere umano...
ma la Dora morì, e si fece un funerale,
e il blues era una doccia di pioggia quel giorno,
e mio nonno scavava una fossa nel giardino sul retro,
una vanga argentata e una catena dorata,
per calare la Cagna nel suo eterno sepolcro;
intanto piangeva e io gli dicevo:
"Nonno, la Dora è andata in paradiso
a correre con la sua mamma, la Nerina,
sta bene adesso, è felice"
"E un giorno in paradiso andrò anch'io"
mi rispondeva
"E armonica alla bocca
chiamerò la Dora,
lei mi correrà incontro,
e forse allora la pioggia cesserà";
la pioggia continuò per anni e anni,
bagnando tristi pomeriggi di vuota esistenza,
in cui rinchiuso come un carcerato a Folsom Prison,
me ne stavo, nell'olocausto psicopatico
del centro sanità mentale, con un ago in vena,
e divenne acquazzone una mattina d’autunno,
con nonna che urlava impazzita
e i telefoni che squillavano alle tre (ora fatale)
e quel poco di luna che c’era,
la sua luce rifletteva, dalla finestra,
sulla lama della falce che la morte calava
su mio nonno, la vittima;
la vittima (Oh, povera la vittima!)
quindici anni dopo reincarnata
e rinchiusa appena nata
in una gabbia di vetro, con un buco in cuore,
e l’altro nel palato,
il gran calvario d’ospedale in ospedale
per mesi e mesi,
quando Faenza più non era un vicolo del cazzo,
ma un ospedale del cazzo,
e io c’avevo solo il blues che mi consolava,
l'antico lamento funereo dei vecchi crocevia,
dal Texas al Mississippi, sulla Highway 61,
lo cantavo con la mia chitarra scordata,
come faccio ancora adesso, questa sera,
rifugiandomi nella malinconica melodia
dei felici anni d'esordio,
quando ancora c'era un senso,
cantando la scala grande davanti alla mia casa,
dove in estate ci stavo sotto perché c’era l’ombra,
seduto sulla sedia bianca o anche per terra,
a guardare davanti a me le case,
le case di Borgo Tuliero,
e tutto era ancora così lontano,
aspettando mio cugino per giocare...
e il sole ti picchiava in testa
e ai bimbi serve il cappello
e mio babbo mi costruiva case di cartone con vecchi scatoloni
e siccome era estate c’erano le api che pungevano
e poi piangevi
ma in inverno ci stavano i topi
che quelli mordono
e disegnavamo mappe del paese per esplorarlo in ogni angolo
e col bastone cacciavamo i cani che volevano incagnarsi la Dora in calore
e mi caricavano sulla sua schiena mentre mi scattavano fotografie in bianco e nero
e quando calava il sole
si andava a danzare in mezzo alle lucciole
nel giardino sul retro della casa di Nando
e tutto tutto tutto ripeto tutto era aperto al domani...
...un giorno me ne andrò anch'io finalmente,
e quando questo accadrà,
dite soltanto che ho cantato
il blues della mia vita...
Avevo una vecchia autoradio
Avevo una vecchia autoradio
mi cantava il blues
da mattina a sera
Era un sorpassato modello a cassetta
Era un sorpassato modello a cassetta
ma giuro, tesoro
era tutto quello di cui avevo bisogno
L’inverno ghiacciava i miei finestrini
ho detto
L’inverno mi ghiacciava i finestrini
e mi arricciava il cofano
ma, perdio, non sentivo freddo
grazie alla mia vecchia autoradio
Mi svegliavo alla mattina
e il suo canto mi scaldava
giuro che
Mi svegliavo di mattino
e il suo canto mi riscaldava
canticchiavo quelle note
e mi sentivo soddisfatto
ripeto
canticchiavo le sue note
ed ero così soddisfatto
Ma un giorno la mia vecchia autoradio
smise di cantarmi il blues
sì,
La mia amata vecchia autoradio
smise di suonarmi il blues
e sospirai, ok, i tuoi giorni
son finiti
ti farò un funerale a ritmo di Jazz
Scavai una buca per la mia
vecchia autoradio
sì, ho detto che
Scavai una buca per quella mia
vecchia autoradio
ve la calai con una
catena dorata
cosicché la gente possa dire
quella era l’autoradio di un ricco
l’autoradio di un uomo ricco
E adesso l’inverno
mi ha crepato il finestrino
Oh dio,
L’inverno mi ha
accartocciato il cofano;
sono una vecchia automobile
che non sa più cantare
La mia carne di suino è andata a male: ha fatto i vermi!
ti ho detto che
La mia bella e succosa bistecca di puro suino
è scaduta: bigatti bianchi strisciano al suo interno!
In fondo dovevo aspettarmelo: era fuori frigo da due anni e mezzo!
Sono stato nelle praterie del sud, dove ho imparato che là
la campagna è troppo piatta
ti ho detto che
Sono stato nelle sconfinate praterie del sud,
ma sentivo la nostalgia delle mie colline
Sono tornato una mattina di ottobre, ma la vista della mia terra
non mi ha tirato su il morale…
Avevo una donna a Ravenna: mi tradiva tutto il giorno!
ti sto proprio dicendo che
Avevo una donna a Ravenna: faceva la furbetta da mattina a sera!
Le ho insegnato ad amare e lei ha ricambiato
insegnandomi a blueseggiare
Mi sa che me ne vado dalle cinesi, a farmi fare robe pese
guarda, non so il tuo pensiero,
Ma me ne corro dalle cinesi, a fare robe turche
Tornerò a casa entro mezzanotte, così il mio cane non si preoccupa
Lui dice che non è vero
sono solo scuse
perché sono un lavativo
e non ho voglia di faticare
ma lui non sa
non può capire
l’angoscia che mi prende
quando solo e abbandonato
in mezzo al buio della stanza
mi raggomitolo nel letto
col fiatone che m’assale
e tutto il dolore
- l’estremo dolore -
scivola giù dalle mie braccia
e si ferma
sulla punta delle dita
mi sbattevo
ad una festa
strusciand’il pacco
contr’il culo
d’una qualche tipa
ma
non che fossi
troppo felice …
ci vedevo
abbastanza quadruplo
e siccome
mi colse
la nausea
scarabattlai di là
in cucina
(la tipetta si voltò
non mi vide più
e su un altro pacco
si consolò)
è di là
in cucina
che c’era la festa!
tutti deliranti
sbavando sul tavolo
bianchi
bianco anch’io
eravamo soltanto
un mucchio
di cadaveri;
voltandomi
sul lavandino
lo riempii
di vomito
e mi pare
mi tirai
giù i calzoni
e pisciai
sul pavimento
o
forse confondo
e fu il mio
vicino
a pisciare
comunque
qualcuno pisciò
perché la
stanza si
riempì di
puzzo d’urina
-d’urina alcolica-
e mi misi
a ridere
mentre
una discreta gnocca
sulla porta
mi chiese
le credenziali
“ mon amùr
vieni a
sdraiarti
sul divano
con me
e ti preparerò
al futuro”
le dissi
e quella
mi seguì
tutta contenta
(fighetta furbetta
dall’alito spermico
quanti lavori di bocca
hai fatto
ai chierichetti
di S. Battista
prima d’esser
qui
stasera)
e poi
là così
sul divano
abbracciati
le stringevo
una tetta
nella destra
e una lattina
-birra strana-
nella sinistra
ma ancora
pensavo a me stesso …
mi sembra
tutto così assurdo
ricordando
qualche anno fa
tutto quello che
c’è stato
e
mi ha ridotto
così
sì ma
io non ero quello
no
io sono questo
sono un
cadavere tra cadaveri
nelle feste
all’urina alcolica
e
all’alito spermico
e
alle mani sulle tette
(come la sua
gonfia
di voglia)
io
ora
ripenso a tutto
e rido …
Moro lo sapeva
quando
ha detto
ch’è
difficile
dedicare
una vita
al lavoro
nelle aziende agricole
nei campi
e le banche
che fottono
-sotto di
quattromila euro-
e
la crisi
dell’Italia
in crisi
ormai
è un
luogo comune
e ho fatto
un figlio
nei tempi
di crisi
nato in
un’Italia
di crisi
e quindi
mi rintano
qua
tra una birra
strana
e una tetta
gonfia
che mi
arroventa la
mano
e mi
stimola
il pacco …
qualche troia
s’è tolta la
maglia
per mostrare
il seno
e
sentirsi
importante
e tutti
ballano e sudano;
anch’io
mostro
il seno
alle troie
ai cadaveri
all’Italia in crisi
alla birra
al vomito del lavandino
all’urina in cucina
e
alla fighetta furbetta
che ha
ridato la vita
al mio bassoventre
depresso …
più tardi
su in camera
le darò
ciò che
vuole.
Tutto è perfetto
Tutto è perfetto
nel dolore
e
negli errori
e
in ciò che
ho perso …
Moro lo sapeva
e penso
d’esser il primo
che
l’ha scritto
in una
poesia
Nel grande stanzone puzzolente
i malati deliravano seduti uno accanto all’altro
i pavimenti e le sedie erano coperti di merda
i loro volti erano coperti di merda
il naso e la bocca di colore marrone
e si baciavano in bocca fra di loro
si leccavano il volto fra di loro
donne con donne; uomini con uomini
grosse vespe con scintillanti pungiglioni neri
svolazzavano ovunque
gli infermieri correvano avanti e indietro
scivolavano sulle loro feci
sguazzavano nelle loro feci
le mascherine e i camici verdi insozzati
cercavano di scacciare le vespe
cercavano di non farsi pungere
ma le vespe erano troppe, ed erano così grosse…
Un giovane missionario, forse appena ventenne
reggeva un catino sotto la bocca
di una ragazza piegata in due
che vomitava sangue misto a grumi di merda
in fondo alla stanza, i dottori urlavano
cercando di placare un’orgia in corso;
io me ne stavo sulla porta
lo spettro di mia nonna era al mio fianco
schifato da tutta quella merda
nauseato da tutto quel puzzo
spaventato da quella trasgressione
non riuscivo ad entrare;
c’era bisogno di una mano
Dio mi stava chiamando
ma non avevo ancora il coraggio
di piegarmi al suo volere…
Sconfitto, lasciai l’inferno ai valorosi
e mi incamminai lungo il corridoio dell’ospedale
– mia nonna mi seguiva, scuotendo il capo –
in una piccola stanza alla mia sinistra
una paziente sui trent’anni camminava avanti e indietro;
tirandosi i capelli biondi, sghignazzava e poi piangeva;
era nervosa, perché la stanza con la merda le mancava
ma ne stava uscendo: fra poco l’avrebbero trasferita
alla destra del corridoio…
Molte persone ne erano uscite
molte persone ce l’avevano fatta
e adesso sorridevano beate
dalle foto appese ai muri verde scuro:
c’era ancora una speranza, quindi…
La paziente nervosa, non appena mi vide,
mi corse incontro e mi abbracciò, ridendo e piangendo
cercando un po’ di affetto, un po’ di comprensione
e ad un tratto pensai:
“Sembra la Giulia, ma fra qualche anno…”
e forse era la Giulia fra qualche anno
forse anche lei, un giorno, smetterà di necessitare
della stanza con la merda…
Accolsi tra le braccia quella povera creatura
le baciai le orecchie e le guance
che ormai non sapevano più di merda
la guardai negli occhi e le dissi:
“Ci vuole ancora tempo,
ma non è detto che il coraggio
mi mancherà in eterno…”…
Dieci minuti dopo, seduto in sala d’attesa,
mi guardavo le mani e pensavo
mentre lo spettro di mia nonna
chiacchierava con la paziente bionda
che ora si era calmata molto;
passò un venditore ambulante di colore
richiamò la mia attenzione mostrandomi un libro:
“Ciao amico, come andiamo? Vuoi, amico?”
gli risposi di no, che non avevo soldi
“No no, amico, io regalo, regalo!”
stupito, presi il libro tra le mani
e colto dai rimorsi
insistetti per pagarglielo:
non accettò e scomparve, uscendo dall’ospedale;
ancora incredulo, ma stranamente euforico,
cominciai a sfogliare il libro…
Mi hanno regalato una pipa per Natale
Mi hanno regalato una pipa per Natale
Una bella pipa in legno, di buona fattura
Non bisogna essere tristi, non bisogna stare male
Mi hanno regalato una pipa per Natale
Mi hanno regalato una pipa per Natale
Il giro del Monte è solo un’illusione
Fingono interesse e basta, solo questo e basta
Mi hanno attirato fuori dall’auto
Dicendo che dovevo smetterla di stare male
Poi quando sono tornato, sul sedile del passeggero,
C’era il mio regalo di Natale:
Era una pipa, una pipa, una bella pipa
Mi hanno regalato una pipa per Natale
Mi hanno regalato una pipa per Natale
Tutto andrà per il meglio: io non sto più male
Perché
Mi hanno regalato una pipa per Natale
Una pipa per Natale
Natale
Uscimmo dalla casa che fuori era già buio;
aspettammo un attimo in giardino – fumando –
che anche Calipso finisse e ci raggiungesse.
Sputai per terra e per poco non presi le scarpe del mio compagno;
mi doleva un dente, ma il dentista era a Faenza
e Faenza era lontana…
Calipso uscì e finalmente ci raggiunse;
le avevano sporcato i capelli e la guancia sinistra
ed era bellissima – la chiamavano così
perché aveva fatto per nove anni l’amore con un tale
sposato e in esilio –; niente stelle, la luna era mezza
la strada di terra un poco infangata
piovigginava appena e la nebbia scendeva – soffrivo tanto –
Ci mettemmo in cammino; le mie scarpe sarebbero diventate
nere prima di raggiungere il paese, che comunque
già s’intravedeva a fondo valle.
Calipso inciampò e il mio compagno la prese al volo;
le guardai le tette, mentre si ricomponeva
– non devo vedere certe cose, non ce la faccio –
“Avanti gente, ch’è ancora lunga!”
Qualche altro metro e si fece la notte;
guardavo i campi, le montagne sullo sfondo
– pensai – “Un giorno sarò là”… ma a volte, di notte mi svegliavo
e il fiato mi mancava.
Il mio compagno si fece scuro; s’avvicinò
“Non ti dirò mai più fottiti...” mi disse,
ma era ovvio che ormai c’ero dentro fino al collo…
Scrollai il capo “Forse Calipso non ce la fa più, stalle accanto”
risposi secco, e lui tornò al suo fianco.
Lei ora zoppicava; io non potevo più guardarla:
era bambina a Borgo Tuliero, e così voglio ricordarla…
– EEEEEEK – uno strillo di poiana volava sopra la mia testa:
sono abituato alle cose che volano dentro la mia testa, non sopra
… ma prima o poi finiranno, finirà tutto;
Michael ha comprato una carabina per difendersi dalla gente impazzita,
quando la rivolta scoppierà, e andremo su al Rifugio dell’Anima
insieme a Pelle di Lupo, vegliati dal sacro spirito di falco, Moral
ed io avrò un revolver e difenderemo a ferro e fuoco il nostro fortino
… però, adesso, è ancora presto…
Ci fermammo un’oretta circa, perché a Calipso sanguinavano i piedi;
il mio compagno con un fazzoletto glieli asciugava, ma non bastavano
– non bastano mai – e lei si tenne i suoi piedi insanguinati.
“Se ti bruciano, soffiaci sopra!”
il rancore insensato che leggeva nei miei occhi, la scoraggiò
ma non glielo spiegai mai, non avrebbe capito; nessuno può capire.
Quando ci alzammo, non ci fermammo più finché non giungemmo in paese
e il paese non sembrava proprio aspettarci
con le sue finestre sbarrate, luci spente e l’aria di cose morte
ma trovammo lo stesso una camera ad un ostello
e comprai due bottiglie da un litro di birra
e buttato là sul pavimento, me le scolai, mentre sul letto
il mio compagno curava le ferite di Calipso, nel modo che cura ogni male
e quel dannato d’un letto gniccava, mentre lui ansava
ma Calipso non aprì bocca – evidentemente, l’aveva già aperta troppe volte –
comunque m’addormentai, scolando birra sul pavimento…
… anche adesso m’addormento scolando birra sul pavimento
mentre sramasso qua le ultime boiate;
oggi è stata una pessima giornata, cominciata in blu
col blues di Blind Lemon Jefferson, alle sei del mattino
rincasando da un ingrosso di paste, che i commessi ti danno
colle mani lorde e sudate
– penso – il tempo di cambiare l’ho avuto
ma stava agli altri farmene render conto
e Calipso è morta, per quanto mi riguarda…
Una pessima giornata cominciata in blu
col blues di Blind Lemon Jefferson
non può che finire col blues di Gianluigi Valgimigli
– onesto –
Francesca,
il nostro bellissimo sogno d’amore, iniziato per la corda di una chitarra spezzata
fuori nel vicolo, di fronte all’albergo – Cesenatico – ragazzi di colore suonavano in strada
io suonavo con loro, avevo la barba lunga e il cappotto non riusciva a coprirmi
dalla fredda brezza che dal mare viene, quando scende la notte…
La prima volta c’incontrammo così: scendevi le scale lentamente, per farti ammirare
e pareva proprio che tutti suonassimo per te; cosa importa se già un uomo
ti scaldava i piedi sotto le coperte della stanza trentaquattro?
Eri così bella che solo lui non poteva bastare…
Non appena mi passasti accanto, la mia chitarra perse il si
“Oooooooh, non sarò stata io, di grazia?”
“Mia bella signorina, non ne abbiamo sicurezza, ma è certo che lei è bella
e potrebbe in questo modo, aver scioccato la chitarra; comunque sia o non sia
mi inviti fuori a cena e scorderemo l’accaduto!”
E iniziammo a camminare per le vie che vanno al mare e al pomeriggio
ti amavo ferocemente: dentro te, la mia passione filava liscia
la tua, bagnava le coperte della stanza trentaquattro;
un secondo al bagno per lavarsi, e via, via, giù in spiaggia a farle pese!
Mi aggrappavo a te, ti infilavo una mano sotto la maglietta nero lucido
che indossavi sempre, mentre tu ridevi e chiedevi un bacio
“Ed io, mia cara, che pensavo, siccome tu già di un altro eri
e soprattutto più grande d’undici anni, che mai e poi mai
avresti prestato nota a un barbone quale io sono!”
“E tu, mio caro, pensavi molto male, siccome io già t’amo
e voglio farti d’amante, d’amica, da sorella e da madre!”
E allora fammi da tutto questo – sporco mondo! – fammi pure tuo del tutto
perché già da troppo tempo, ormai, io non sono più di nessuno
e ho perso la mia voce, ma tu me la puoi ridare!
E continuammo, e passò un mese e io ti amavo troppo
avevamo il progetto di volare in deltaplano lungo tutta la costa
fare in cielo ciò che in terra toglieva troppo tempo al nostro amore
ma mai saremmo riusciti, perché tutto finì una domenica sera
al ristorante del tuo albergo: cena di lusso con minestra di pesce e alghe;
c’era pure quella stupida della mia ex che, abbracciata a suo padre,
moriva verde d’invidia nel vederci così uniti.
“Vedi, caro, in un piattone ti portano due tipi di minestra mischiati
e ciò mi fa incacchiare non poco! Ce n’è un tipo verde con alghe e
un tipo rossa, con peperoncino e gamberi: ecco, quella rossa mi fa
prudere tutta, qua sotto, se anche solo la sfioro con la punta della
mia rosea lingua; perciò, son costretta a dividere il tutto, minuziosamente,
ogni volta, eccheccaspio!!!”
Io, al contrario, ci davo dentro in quella rossa, quando d’improvviso
m’accorsi – sarà forse stato il peperoncino? Mboh… chissà… –
che tutto era finto, che il ristorante era finto, che la gente era finta
che la mia ex era finta, che la minestra era finta e che tu – che dolore, il mio cuore!!! –
che tu eri finta: era stata solo l’ennesima presa in giro, l’ennesimo scherzo
del telefono che suona e quando alzi la cornetta, risponde sempre e solo
una voce registrata; non potevo sopportarlo, non un’altra volta
e mi alzai di scatto in piedi, corsi via velocemente contro il vetro del ristorante
rompendo il vetro del ristorante, che tanto era finto, e presi il largo
via, via, via, verso il mare – la tua voce cercava di fermarmi, alle mie spalle,
ma già non badavo più alla trappola dannata – verso il mare e
verso l’oblio che ci conforta, quando la vita ci ha segnati e
ridendo, ha deciso che siamo i suoi giullari.
Incontri notturni negli oscuri parcheggi faentini
Quando spegni la luce
nel buio
sono tutti uguali
uomini e donne
sono la stessa fottuta cosa;
con lo schifo in cuore
ho camminato in mezzo
a una strada di campagna
nel buio più totale
affogato nel nero
e ho pregato il signore
“Oh, mio buon Dio,
afferra le mie mani
e portami lassù
qua c’è tanta merda, tanto puzzo
sono un tipo troppo raffinato
per sopportare tutto questo”…
Domattina
vomiterò nel cesso
tutto lo schifo ingoiato
e sconfitto, stanco e disilluso
mi stravaccherò sul letto
aspettando che le mie preghiere
vengano esaudite
Quando ti portammo dentro, non riuscivi a reggerti in piedi;
ci venne incontro un’infermiera bassa e anziana e ti fece sedere su una carrozzina un po’ scassata
– tua madre piangeva e tuo padre fissava il pavimento, severo e muto come sempre;
entrambi mi odiavano: la prima, perché ero stato io a chiudere la porta a chiave,
il secondo, semplicemente perché ti amavo… –
Lungo il corridoio, diretti alla tua stanza, le ruote della carrozzina cigolavano e tremavano;
il piccolo corteo funebre, seguiva la morte della tua mente:
l’infermiera portava la carrozzina, tuo padre le camminava accanto,
in prima fila come sempre,
con tua madre che gli trotterellava dietro,
piccola stupida cagna fedele,
mentre io, a qualche metro di distanza,
mi fermavo ogni tanto a fissare i graffiti che infestavano i muri, un po’ ovunque;
muri vecchi e crepati, su cui la monotonia del bianco sporco, ogni tanto,
era interrotta da qualche schizzo nero, rosso, giallo o verdastro:
esseri deformi, sgorbi indefiniti e scritte, tante, tante scritte, flussi di coscienza usciti da menti malate e vomitati lì sopra;
non so se fu colpa della stanchezza per la notte insonne, o se forse anche la mia pazzia cominciava a manifestarsi,
ma tra quelle scritte fui sicuro di vedere il mio nome e corsi dall’infermiera a riferirglielo:
lei mi rispose grattandosi il naso e sistemandosi gli occhiali.
La tua stanza non era molto diversa da quelle di un comune ospedale,
con un grosso letto singolo al centro, due comodini ai lati e un armadio a doppia anta azzurro scuro, vicino alla finestra;
di quest’ultima, mi infastidivano le sbarre, lunghe e spesse…
Quando ti fecero stendere sul letto e ti attaccarono la flebo,
quella stupida di tua madre scoppiò nuovamente a piangere,
forse trovandoti brutta, così bianca, spettinata e struccata;
nonostante il biondo acceso dei tuoi capelli, fosse ormai irrimediabilmente sbiadito,
per me eri sempre la cosa più bella di questo mondo,
ma sapevo che non avrei più potuto stringerti tra le braccia, almeno non come prima.
Schifato da tua madre, infastidito dalle sbarre e confuso dal mio nome su quel muro,
decisi di uscire a farmi un giro;
di nuovo in corridoio, le porte erano tutte chiuse, ma in fondo,
alla mia sinistra, una rampa di scale scendeva al secondo interrato.
I gradini erano bagnati e scivolosi, ma non c’erano cartelli ad indicarlo,
e più scendevo, più l’aria si faceva umida;
dalle stalattiti sul soffitto e dalle pareti rocciose, capii di essere entrato in una specie di grande grotta:
quaggiù, radunati nella conca centrale, decine e decine di pazienti in camice bianco,
schiamazzavano liberi e giocavano fra di loro, si rincorrevano, ballavano, saltavano gioiosi,
si tiravano i capelli e si schizzavano con l’acqua delle varie pozze sul pavimento;
potevo camminare tranquillo in mezzo a loro, non sembravano accorgersi della mia presenza,
un fantasma in mezzo ai pazzi…
Una ragazza dai capelli marrone scuro, a caschetto, mi passò davanti saltellando e canticchiando:
la trovai molto graziosa e uno strano senso di malinconia, mi spinse a seguirla;
entrammo in un buco su una parete, grande quanto una porta, che conduceva a un laghetto sotterraneo,
abbastanza grande perché cinquanta persone ci facessero il bagno contemporaneamente,
e lei cominciò a spogliarsi, dandomi le spalle; completamente nuda
– mi faceva una gran tenerezza, così piccola e indifesa, come una bimba,
come il mio amore nascosto a Borgo Tuliero, quando avevo solo dodici anni –
si tuffò e cominciò a sguazzare allegramente nell’acqua;
la lasciai al suo piacevole bagno e continuai il mio cammino…
– TERZA PARTE, TERZO PIANO INTERRATO: LA STAZIONE DEI TRENI SOTTERRANEA,
PAZIENTI CHE PARTONO E NON TORNANO; SOLO PARTENZE, NESSUN ARRIVO –
Il terzo e ultimo interrato, è una piccola e vecchia stazione sotterranea,
e in questa stazione c’è solo una tabella: quella delle partenze.
Ci si arriva attraverso un ascensore scassato e traballante, che pare debba precipitare da un momento all’altro,
ma silenzioso, non emette alcun suono
– l’intero luogo è avvolto dal silenzio più totale, nemmeno i movimenti hanno più rumore –;
la prima cosa che salta all’occhio non appena si esce dall’ascensore,
è la lunga coda di pazienti (muti come pesci e a capo chino) in attesa di partire,
incolonnati davanti a una biglietteria (una specie di cabina arrugginita, pare vecchia di secoli)
da cui spunta una grossa mano rivestita da un guanto bianco in lattice
– emerge letteralmente dalle tenebre per consegnare il biglietto ai pazienti in coda,
nessuna voce, nessun corpo, nessun volto si lega ad essa,
e all’interno della biglietteria solo il buio più totale;
da una parete d’oscurità simile, fuoriesce il binario, che passa davanti alla piccola stazione,
per poi scomparire, nuovamente inghiottito da un mare nero –.
I muri sono perfettamente bianchi, come i camici dei pazienti,
e il pavimento è rivestito di piastrelle verde scuro;
la tabella delle partenze, si trova davanti al binario, in mezzo a due panchine di legno non verniciato…
… finché non raggiunsi un grosso ascensore di metallo incastrato tra due rocce;
all’interno della cabina, un grosso pulsante rosso e basta.
I lettori di questa mia disavventura notturna, avranno già compreso di quale ascensore si tratti e dove conduca,
perciò andrò direttamente al punto: giunto al terzo piano interrato,
rimasi un attimo ad ammirare, incantato, i pazienti in coda davanti alla biglietteria
(che non riuscivo a guardare, troppo inquietante…):
se ne stavano lì, muti, a testa bassa, gli occhi fissi sul pavimento;
arrivato il loro turno, alzavano meccanicamente un braccio per prendere il biglietto e,
sempre a capo chino, si posizionavano davanti al binario, uno al fianco dell’altro;
nessuno si sedeva sulle panchine.
Nonostante i brividi e il gelo alle ossa, decisi di farmi coraggio e di avvicinarmi alla tabella delle partenze,
curioso di sapere cosa ci fosse scritto;
stupito, rimasi a bocca aperta,
a fissare le parole stampate sul cartellone;
non potevo credere a ciò che i miei occhi stavano leggendo…
Faenza, una notte di ottobre del 2017; gloria eterna agli scrittori di serie B!
Mi avevano detto che era cambiata
Elisa violentata
Calze a rete da puttana
In minigonna a qualche fiera nerd;
Un tempo al catechismo
Istruiva i bambini sui dogmi della chiesa
Adesso al catechismo
Istruisce il prete sulla futilità della chiesa
Posso immaginare sia rimasta delusa
Elisa violentata
Votata alla castità nel nome di S. Giovanni Battista;
Tutti gli anni passati a tutelare qualcosa
Sprecati nel giro di due minuti
Sulla sabbia bruciante di una spiaggia deserta;
tutto è stato inutile, ‘fanculo a S. Giovanni Battista!
Ogni tanto la becco in giro
Elisa violentata
Sta giù allo Spider a indurirsi di birra,
È una specie di darkettona e fuma coi punkabbestia;
A volte torno a visitare S. Giovanni Battista
Sperando di vederla seduta su una panca,
ma poi ricordo di essere l’unico
che non è mai cresciuto
ed è per questo che sono solo
Quel pomeriggio che era un caldo boia
Un cane pisciava su un lettino rovesciato
Le loro mani sudate ammazzavano ciò in cui credeva,
lei, piangendo, fissava il mare
e sentiva l’orchestra in piazza intonare
“Rimini bella, io voglio tornare”…
… non credo che tornerà più…
Sono quattro notti che non dormo
E mi sento un dio
Potrei stare anche ore
A pulire il tuo sangue dalla vasca da bagno;
Dovresti però trovare il modo
Di suicidarti in maniera pulita
Non sempre capita la fortuna
Di beccare il polo giusto
INSONNIAAAAAAA!!!!!
Sto lavorando per entrambi
Il tuo disgusto a volte è ingiusto
E se è vero che io sono un uomo
Che ha pregato poco
Allora tu sei una donna che ha pregato decisamente troppo
Sempre inginocchiata davanti
A qualche povero Cristo;
È tutta colpa del tuo spirito zingaro
Se non trovo un motivo
Per far tacere la mia testa
INSONNIAAAAAAA!!!!!
Baciarti in bocca ha un sapore strano
È come bere un cocktail di catarro e sperma
È come finire in un fosso a Porto Corsini alle 4 di mattina
È come illudersi che tra di noi
Può esserci ancora sesso senza violenza;
Ho già scritto tutto anni fa
È da tempo ormai che recito un copione
Però voglio ancora resistere: non me ne andrò finché non avrò cagato sulla tua tomba!
INSONNIAAAAAAA!!!!!
Cara piccola D
Hai lasciato un po' di te
In questo fazzoletto sporco
E io ho lasciato un po' di me
In quello sputo dentro al cesso
Tanti anni buttati invano
Per ottenere altro tempo da buttare:
Questa è la vita!
Un vecchio microfono di scarsa qualità
Per una registrazione piena di disturbi e rumori di sottofondo;
Mentre canti la tua canzone,
Puoi impegnarti, dare il massimo,
Ma alla fine solo quei disturbi spiccheranno
Cara piccola D
Alla fine non c'era proprio nulla
Come sempre, avevo ragione io
Il solito perfetto muro bianco
Solo lo sfogo di una sera
La voglia di sperimentare e basta
La voglia di trasgredire e basta
Questa è la vita!
Un vecchio microfono di scarsa qualità
Per una registrazione piena di disturbi e rumori di sottofondo;
Mentre canti la tua canzone,
Puoi impegnarti, dare il massimo,
Ma alla fine solo quei disturbi spiccheranno
Cara piccola D,
ormai non c’è più via di scampo
la mia vita è un insieme di rapporti
in cui solo la carne vince
e ci si scorda di tutto il resto;
eppure anche il mio letto è stato caldo
in un tempo in cui le cose potevano ancora cambiare
Sì, ma questa è la vita!
Un vecchio microfono di scarsa qualità
Per una registrazione piena di disturbi e rumori di sottofondo;
Mentre canti la tua canzone,
Puoi impegnarti, dare il massimo,
Ma alla fine solo quei disturbi spiccheranno
Al largo andremo ancora
Al largo andremo ancora
come la notte in cui dipinsi
la tua rosa bianca di rosso;
e tornerò a sognare
le estati laggiù in Messico
quando bastava un tuo sguardo
a illudermi d'aver vinto
e a te bastava un dolce rimpianto
a illuderti d'aver dato:
da allora sono stato molto male
ma non ho mai avuto
la pretesa di scordare...
Al largo andremo ancora
la barca sarò io
la vela sarai tu
niente remi e niente ancore:
solo un triste cuore alla deriva
come unico passeggero.
Dan
È tutto finito – di nuovo;
la mia Regina Cinese
era solo un miraggio…
Salute!
Da oggi sono tornato
il solito amante fallito;
e Tu,
per questi vuoti e inutili anni
che mi restano da scontare,
svetterai dalla cima del tuo Tempio Cantonese
sulle montagne di Hong Kong
orgogliosa di aver distrutto
un cuore occidentale.
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