GIANLUIGI VALGIMIGLI
PONTESANTO
Pubblicato per la prima volta in “Ravenna Vintage”, raccolta di racconti edita da Claudio Nanni Editore nel 2017; nel 2019 questo racconto ha vinto il Primo Premio al Torneo Letterario Unicamilano edizione 2018, indetto dall'Associazione Culturale Unicamilano di Milano.
1908
Stanotte camminavamo verso Pontesanto; ti ricordi amore mio?
C’era la festa in paese e l’orchestra di Zaclèn suonava un valzer appassionato; la gente danzava oltre la corda tesa a dividere la parte in cui si balla da quella in cui si attende, e qualche furbetto cercava di passarci sotto senza pagare.
“Se vut danzé c’un’na bèla bastérda, té da paghé e tu suldè, bischeròt!”; io ero felice, come quando ero cinino e stavo ore alla finestra, con la mia pòra nonna, a guardare i fuochi d’artificio oltre la ferrovia, l’ultimo dell’anno. E allora…
“Vé, vé, pòra nona, u’pasa e treno!”,
“Uuuuuh, Giluigi, sent ch’armor, i trema i vidar!”…
Stanotte, ero di nuovo contento, proprio come a quel tempo, perché tu eri lì, vicino a me, e non riuscivo a credere d’esser così fortunato.
“La mi mama, la mi mama; la mi mama l’è la còsa piò bèla d’é mond!” cantava ad alta voce un bastardino accanto al carro che vendeva salumi e formaggi; e anch’io avrei voluto cantare a squarciagola, ma per te, solo per te, perché sei tu la cosa più bella del mondo.
Finito il valzer, scrosciarono gli applausi, e un signore timido s’avvicinò al Maestro: “Maestro Brighi, ac’mènd scusa, ma potiv vò suné ona dal vostri bèli mazurche? I pis tènt a la mi burdèla…”, e il Maestro imbracciò il violino e attaccò – Taca Zaclèn! – senza farsi pregare: passione per la musica e amore per la propria gente; quello era l’uomo che aveva portato le sinfonie dei ricchi ai poveri cuntadè d’la Rumagna, che aveva rinunciato a suonare nelle grandi e rinomate orchestre di musica classica che furoreggiavano nei grandi teatri di città, per far ballare il suo popolo nelle aie e nei fienili di campagna; era l’uomo che aveva detto no ad Arturo Toscanini per dire sì al burino del campo accanto; era l’uomo che aveva rivoluzionato l’orchestra folk romagnola, sostituendo la chitarra al terzo violino e inserendo il clarinetto in do. “Vèn, vèn par tot!” informava il bottaio, mentre spillava Sangiovese da una grossa botte in vari bicchieri di vetro, che poi disponeva su una grande tavola davanti alla stalla. I passanti e i ballerini in pausa, accorrevano a svuotare i bicchieri e, a giudicare dai loro volti, il vino doveva essere proprio ottimo; ma io non sentivo il bisogno di bere, ero pienamente sicuro di me. In pista, un padre saltellava con il figlio, al ritmo di un galop scatenato; rimasi per un attimo incantato a guardarli, mentre ti stringevo forte al mio petto, accarezzandoti i capelli.
Era tutto così perfetto: la musica, la passione, le risate, i basterdi che si rincorrevano o giocavano a nascondino, la gente che faceva una partita a carte – “Alé, vèn mo, che as’fasèn un bibì!” –, l’estate ormai alle porte, il mio male interiore che non interrompeva il corso dei miei pensieri (lasciando la mia mente a un meritato riposo) e quel padre, quel padre che ballava col suo bimbo… quanto amore, quanta intesa (niente offese tra di loro, niente botte tra di loro; niente di questo, mai!)… Che notte, mi bèla stèla; che notte, stanotte!
All’improvviso, l’orchestra si fermò di botto, mentre un vecchietto alla mia destra imprecava per una mano persa a beccaccino; piano piano, con dolcezza, tra gli applausi che andavano scemando, l’archetto del Maestro cominciò a diffondere nell’aria le prime note di una composizione che conoscevo bene. “Ehi, quèst l’è e mi pèz favurìt: dai mo’, andègna a balé!” ti dissi, prendendoti per mano. Là, in mezzo alla pista, faceva caldo, molto caldo, ma non era colpa della stagione: erano i ballerini che, sudati e scatenati, ardevano di autentico furore. Stavo vivendo la notte più bella della mia vita: i piedi consumati, la splendida melodia di quel valzer che adoravo, il misto di sangue, sudore, lacrime e… e il tuo nome…
C’era la festa in paese e l’orchestra di Zaclèn suonava un valzer appassionato; la gente danzava oltre la corda tesa a dividere la parte in cui si balla da quella in cui si attende, e qualche furbetto cercava di passarci sotto senza pagare.
“Se vut danzé c’un’na bèla bastérda, té da paghé e tu suldè, bischeròt!”; io ero felice, come quando ero cinino e stavo ore alla finestra, con la mia pòra nonna, a guardare i fuochi d’artificio oltre la ferrovia, l’ultimo dell’anno. E allora…
“Vé, vé, pòra nona, u’pasa e treno!”,
“Uuuuuh, Giluigi, sent ch’armor, i trema i vidar!”…
Stanotte, ero di nuovo contento, proprio come a quel tempo, perché tu eri lì, vicino a me, e non riuscivo a credere d’esser così fortunato.
“La mi mama, la mi mama; la mi mama l’è la còsa piò bèla d’é mond!” cantava ad alta voce un bastardino accanto al carro che vendeva salumi e formaggi; e anch’io avrei voluto cantare a squarciagola, ma per te, solo per te, perché sei tu la cosa più bella del mondo.
Finito il valzer, scrosciarono gli applausi, e un signore timido s’avvicinò al Maestro: “Maestro Brighi, ac’mènd scusa, ma potiv vò suné ona dal vostri bèli mazurche? I pis tènt a la mi burdèla…”, e il Maestro imbracciò il violino e attaccò – Taca Zaclèn! – senza farsi pregare: passione per la musica e amore per la propria gente; quello era l’uomo che aveva portato le sinfonie dei ricchi ai poveri cuntadè d’la Rumagna, che aveva rinunciato a suonare nelle grandi e rinomate orchestre di musica classica che furoreggiavano nei grandi teatri di città, per far ballare il suo popolo nelle aie e nei fienili di campagna; era l’uomo che aveva detto no ad Arturo Toscanini per dire sì al burino del campo accanto; era l’uomo che aveva rivoluzionato l’orchestra folk romagnola, sostituendo la chitarra al terzo violino e inserendo il clarinetto in do. “Vèn, vèn par tot!” informava il bottaio, mentre spillava Sangiovese da una grossa botte in vari bicchieri di vetro, che poi disponeva su una grande tavola davanti alla stalla. I passanti e i ballerini in pausa, accorrevano a svuotare i bicchieri e, a giudicare dai loro volti, il vino doveva essere proprio ottimo; ma io non sentivo il bisogno di bere, ero pienamente sicuro di me. In pista, un padre saltellava con il figlio, al ritmo di un galop scatenato; rimasi per un attimo incantato a guardarli, mentre ti stringevo forte al mio petto, accarezzandoti i capelli.
Era tutto così perfetto: la musica, la passione, le risate, i basterdi che si rincorrevano o giocavano a nascondino, la gente che faceva una partita a carte – “Alé, vèn mo, che as’fasèn un bibì!” –, l’estate ormai alle porte, il mio male interiore che non interrompeva il corso dei miei pensieri (lasciando la mia mente a un meritato riposo) e quel padre, quel padre che ballava col suo bimbo… quanto amore, quanta intesa (niente offese tra di loro, niente botte tra di loro; niente di questo, mai!)… Che notte, mi bèla stèla; che notte, stanotte!
All’improvviso, l’orchestra si fermò di botto, mentre un vecchietto alla mia destra imprecava per una mano persa a beccaccino; piano piano, con dolcezza, tra gli applausi che andavano scemando, l’archetto del Maestro cominciò a diffondere nell’aria le prime note di una composizione che conoscevo bene. “Ehi, quèst l’è e mi pèz favurìt: dai mo’, andègna a balé!” ti dissi, prendendoti per mano. Là, in mezzo alla pista, faceva caldo, molto caldo, ma non era colpa della stagione: erano i ballerini che, sudati e scatenati, ardevano di autentico furore. Stavo vivendo la notte più bella della mia vita: i piedi consumati, la splendida melodia di quel valzer che adoravo, il misto di sangue, sudore, lacrime e… e il tuo nome…
…il tuo dolce nome… Elvira…
Elvira, morirai a 19 anni, così bella e giovane su quella lapide;
Elvira, 1916, nel pieno della guerra, un anno dopo il Maestro;
Elvira, è inutile mentire: io lo so che ti ucciderai per me, perché non
riuscirai più a sopportare quelle fredde sere autunnali, sola, il letto una
lastra di marmo e il cuscino una pietra tombale;
Elvira, finirai in un minuscolo cimitero sulla cima della Pietra Mora,
quattro croci a farti compagnia per il resto dei tuoi giorni;
Elvira, solo io mi ricorderò di te, e ogni primavera verrò a portarti un
fiore, quando quella cazzo di neve si scioglie e rinasce la vita;
Elvira, in estate, invece, verrò a trovarti nel cuore della notte, e suonerò
per te il violino finché le prime luci dell’alba non cancelleranno il tuo
spettro;
Elvira, ti amerò per sempre…
Finì troppo presto, come tutte le belle cose; finì con un colpo secco d’archetti e un forte schiocco di bassi: il concerto era terminato e il Maestro aveva scelto proprio il brano giusto con cui chiudere. Si era alzato in piedi, adesso, e stringeva la mano ai ballerini radunatiglisi attorno per ringraziarlo; lo ringraziavano con i piedi dimezzati, ma il cuore grande il doppio. Grazie Maestro; il suo violino suonerà in eterno, nelle notti romagnole. Mi voltai verso di te, e tu eri ancora lì, che mi guardavi sorridendo, stanca, coi capelli arruffati e bagnati. Non sarai mai più bella come in questo momento: accaldata, con le guance arrossate, così dolce, piccola e inesperta, ancora senza malizia negli occhi; la creatura più pura del mondo.
Elvira, amore mio, aspettami: un giorno morirò anch’io; un giorno ti raggiungerò, anche il mio corpo diventerà etereo, e allora sì, saremo di nuovo assieme, è tutto quello a cui ambisco, tutto quello che desidero di più, tutto quello che mi rimane; saremo di nuovo assieme, come questa
notte a Pontesanto, due spettri innamorati che, tenendosi per mano, balleranno al centro del piccolo cimitero; altri spettri sorgeranno dalle tombe attorno, inizierà una seconda festa che non avrà mai fine, e tutti insieme balleremo la danza dell’eternità.
Elvira, aspettami…
notte a Pontesanto, due spettri innamorati che, tenendosi per mano, balleranno al centro del piccolo cimitero; altri spettri sorgeranno dalle tombe attorno, inizierà una seconda festa che non avrà mai fine, e tutti insieme balleremo la danza dell’eternità.
Elvira, aspettami…
2017
Ho ucciso la mia passione in un pezzo di scottex, ho sciupato milioni di figli che tanto non avremo mai, poi sono uscito a fare un giro, rimuginando sul perché siamo così deboli; di giorno è tutto diverso…
Di giorno, Pontesanto è l’assurda malinconia per un’epoca inventata, per qualcosa che non c’è mai stato e mai ci sarà, e l’unica prova della sua esistenza, è un pezzo di scottex sporco che galleggia nella tazza del cesso.
Di giorno, Pontesanto non fa dimenticare le offese e le umiliazioni di un vecchio padrone che ti considera la rovina della sua stirpe, un inutile lascito ai posteri, perché lui tutta la vita ha pensato solo a lavorare, senza correre dietro a inutili chimere: è facile dedicare una vita al lavoro, quando non hai ambizioni.
Di giorno, Pontesanto è un minuscolo insieme di case, in cui un paio di persone attende la morte, vivendo la stessa identica giornata da anni.
Di giorno, Pontesanto è l’assurda malinconia per un’epoca inventata, per qualcosa che non c’è mai stato e mai ci sarà, e l’unica prova della sua esistenza, è un pezzo di scottex sporco che galleggia nella tazza del cesso.
Di giorno, Pontesanto non fa dimenticare le offese e le umiliazioni di un vecchio padrone che ti considera la rovina della sua stirpe, un inutile lascito ai posteri, perché lui tutta la vita ha pensato solo a lavorare, senza correre dietro a inutili chimere: è facile dedicare una vita al lavoro, quando non hai ambizioni.
Di giorno, Pontesanto è un minuscolo insieme di case, in cui un paio di persone attende la morte, vivendo la stessa identica giornata da anni.
Di giorno, Pontesanto è un pazzo che piange perché vorrebbe con tutto il suo
cuore, ma non riesce, perché è la mente a comandare.
cuore, ma non riesce, perché è la mente a comandare.
Di giorno, Pontesanto è un pubblico lavatoio dimenticato nel centro del paese, abbandonato da anni, perché ormai le lavandaie sono tutte morte.
Di giorno, Pontesanto è una ragazza vergine e innocente che non esiste più, perché ormai ha capito come fare strada nella vita.
Di giorno, Pontesanto è l’ultimo posto che dovrei visitare…
E allora soffri Pontesanto, soffri con me, piangiamo assieme, mentre percorro le tue strade e sono solo, rassegnato: ho accettato tutto, adesso, ho capito tutto, adesso; sono uno splendido esemplare di uomo adulto che ha imparato la lezione.
©2017 Gianluigi Valgimigli
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