LA CHANSON D’UN PORA BURDÈL
A Parigi, seguendo le orme di Henry Miller, arrivati col pulmino della scuola in un quartieraccio tòt lurdò, che guardandolo dai finestrini pareva d’esser arrivati in un bordello a cielo aperto, e chi ci accolse, appena messo piede sul suolo francese per la prima volta, fu infatti una madameputain che se ne stava a sfumacchiare una sigaretta sotto un alberello lì vicino, e io avevo lasciato la via Emilia per ritornarci: c’erano signorine ovunque, tre su un lato della strada -due parlavano, una saltava-, due appoggiate su un muro squallido di un edificio diroccato confinante col nostro albergaccio, che si ergeva in tutta la sua tetra bruttezza davanti a noi, e altre puritane luccicavano un po’ ovunque, lungo il largo vialone della perdizione. Il prof alle nostre spalle cercava di mantenere un pelo d’ordine nella massa di studenti eccitata (classe 5B, 15 studenti, Agraria, tutti uomini), ma era difficile tra ragazzini dalle gambe dure in mezzo a tanta roba buona. Sghignazzamenti e commenti volavano da ogni parte, e c’era chi fischiava alle dame, chi incontenibile era già con la testa dentro una di loro, chi stava confrontando un sedere con un altro, un paio di gambe con un altro, due tette con altre due... infilati in sto vicolaccio stretto al lato dell’albergo, con la spazzatura rovesciata in un angolo, sulle nostre teste fili del bucato stesi da un lato a quell’opposto, altre due puritane appoggiate ai muri -una tossiva e si soffiava il naso, aveva lunghi capelli boccolosi e marroni, ed era carina e cessa allo stesso tempo, nel senso che aveva qualità per attrarre e non poco, ma aveva sto nasone ch’era un pugno nello stomaco-, e in fondo al vicolo, ecco l’entrata del nostro bellissimo luogo di ristoro. “Prof, madovekaz ci hai portato?” “La gita doveva stare nei 200 euro” “massì dai Anto che ti lamenti va poi bene bravo il prof un applauso” e partì un applauso, e discorsi vari a raffica, ai quali io non partecipavo perché con la mente già prendevo appunti per successivi inutili scritti. Dentro all’albergo: grosso lampadario pendeva dal soffitto, al centro di un salottino dai muri macchiati, colla carta da parati lacerata, un vecchio stava dietro a un bancone in legno alla nostra destra, un tappetto per terra che pareva c’avessero vomitato sopra, due poltronazze verde scuro probabilmente ammuffite sul fondo della hall davanti a noi, con un grande termosifone in ghisa al centro. Mentre il prof salutava e prendeva accordi col vecchio bacucco dietro alla scrivania, l’attenzione di noi ragazzi era rapita da due fanciulle mica male (una un po’ ciccia, ma era roba buona, era uno di quei casi in cui la ciccia ci sta e fa piacere strizzarla ben bene), piazzate davanti a noi, sorridenti, buonine buonine, una mora l’altra castana, carine carine. Il prof finì di cianciare, e il bacucco fece un cenno alle due sbuzzette, che si voltarono e ci intimarono di seguirle su per una stretta scala (che manco avevo visto, prima), posta in un angolo sul fondo della sala. Prendemmo la scala, perché ovviamente ascensore non ci stava. Era incredibile (e al contempo indicibile) lo squallore di quel posto: chiazze, buchi, cartaccia strappata e penzolante dai muri, puzza strana; ma non ci importava poi molto, perché in quel momento i nostri occhi fissavano altro, e in altri posti sarei voluto stare piuttosto che in quella stanza assegnatami (divisa con altri due), coi letti che scricchiolavano solo a guardarli e la muffa ai muri, la finestrella aperta che dava sul vicolo e sul capo di una madama, i capelli rossi come la faccia mia quando scoprii che al bagno mancava il bidet, eccheccavolo si chiama bidet, e proprio qui in Francia manca, e colle mie turbe igieniche mi stavo morendo, la domanda mi picchiava in testa ballonzolandomi nel cervello, una cosa tipo: come faccio adesso? Come faccio? Come faccio?; ma cosa c’era da fare se non lavarsi seduto dentro al lavandino, colla porta ben chiusa perché non mi vedessero, e porcamiseria quella sera m’era venuta la solita ansia intestinale che la mia mente comanda quando deve distruggermi la serata... AAAAAAAHHHHH! Samuele urlava nella camera, cercando di schiacciare un grosso scarafaggio - pardon, cafard- che strisciva tra lo sporco nel pavimento, e Francesco rideva di gusto (quello rideva spesso) e scorreggiava come un caprone e saltava sui letti mosso da furia caffeinica, mentre uscivo dal bagno dopo aver guardato se c’erano macchie sulle mie mani o sui miei piedi o sul lavandino o nella mia testa, e pensavo adessomistendoemuoiolì, ma i ragazzi volevano far baldoria, e devo ammettere che riuscirono a gasarmi; la situazione tutto sommato mi gasava anche, con le signorine là di sotto che sculettavano e chiedevano se qualcuno fosse disposto ad accompagnarle a casa dalla mamma, e tutto questo per arrivare a dire che, quindi, approfittammo dell’ora d’aria concessaci, ci togliemmo la palla al piede, e non più chain gang ma gang di normali (oddio, parola grossa nei miei scritti) ragazzi diciottenni, uscimmo a far carnevale nella notte parigina... ...capitombolati con un suadente giro di bacino nella stanza affollata di una discoteca, lucidi di alcol da far schifo a un barbone, con il matto del gruppo che scossava il capo folle di folle follia, agitando i capelli spargendo forfora ovunque, e la stroboscopia paranoide gli aveva fottuto l’anima, non c’era più nulla da fare per tenerlo al fresco; io intanto cercavo una scusa per piombare tra le braccia di una tipa, e Samuele lo doveva sapere meglio di me come fare, perché era già abbandonato su una poltrona con un cagnetta dal pelo morbido a tenergli caldi i piedi... è importante tenersi al caldo in certe situazioni, se non vuoi che la sbadataggine d’aver lasciato aperta la finestra del cesso, ti congeli il ritmo (e dopo sì, sono i soliti casini che tutti noi signorini sappiamo bene, squack!)... un signore col pizzetto nero squadrava la situazione da un angolo della sala, e io ogni tanto lo guardavo, e mi faceva venire l’ansia perché la mia testa era sicura del fatto che c’avesse qualche problema con me, come hanno problemi quelle vocine continue che sento venire da fuori, mentre sto scrivendo queste boiate, e sembrano uscire dalle bocche di quella truppa di folletti che dormiva dentro al mio armadio quand’ero piccinino picciò, e troppo piccina picciò è la chiave inglese che ti porti sempre appresso -questo lo diceva quel furbetto di Francesco-, a quella vite là in fondo serve un numero più grande, ohhhhsssignoremiscoppialatesta, tutte queste luci in faccia in una volta sola, e tutte queste belle francesine attorno col loro Chanel che ballano e ballano e ballano e ci danno l’anima, e si suda nella discoteca quando ci dai l’anima, e balli impazzito questo delirio che mi fa battere le mani velocissimamente (e non si capisce più niente); ma ad un tratto finisce la canzone, ed è già tempo di cambiare stazione: Se non ci sbrighiamo, qua non si rimorchia nulla, cominciava a preoccuparsi Francesco, quel maialino di Samuele è già contento, guardalo là che sgrufola, ma per noi cosa c’è? Ed ecco che mi venne l’idea: ‘Scolta Francesco, noi ce le abbiamo sotto all’albergo, che senso ha starsene qua a distruggerci le parti basse? E Francesco, che forse non mi aveva mai dato ragione, quella volta me la diede. I miei genitori avevano sganciato abbastanza, e i suoi avevano sganciato abbastanza, e siccome nessuno dei due aveva voglia d’esser il più ricco del cimitero (ma aveva voglia d’altro), cogliemmo la mela del buon satanasso, e ci avviammo ridendo di febbre e sudando bruciore -cogl’occhi sgranati, fuori dalle palpebre, come un fumetto tutto pazzo- sulla strada del peccato francese; suonava le due suonava, un vecchio orologio nella piazza da qualche parte, mentre dritti all’albergo correvamo caricando colpi per esser sicuri di non rimanere a secco, una volta giunti al poligono. E Parigi, laid troy, ci si prostituiva attorno (perché forse li voleva lei i nostri soldi, la furbina), facendo sfoggio delle sue luci, delle sue case, dei suoi locali, dei suoi bar sonnambuli, con la gente davanti che ride e urla imbariaga, e si mena felice, e io cantavo a squarciagola le canzoni di Jacques Brel, con tanto di pose teatrali, e danzavamo io e Francesco in quella notte lontani da casa, lontano da casa, lontano da tutto lo schifo che c’era a casa (ma che comunque era sempre là ad attendermi)... e allora davanti all’albergo di nuovo, colle mani bagnate, a guardarci attorno per individuare la più agréable: quella mora laggiù non è mica male, mah però quella biondina là che fuma con quel fisichino magrino me la vede bene, massì forse c’hai ragione vada per quella; e andò per quella. Ci avvicinammo alla tipa, e lei ci guardò e poi “Salut” ci fece, “Oh, at salut neca me” risposi io e Francesco scoppiò a ridere alle mie spalle, e la madame continuava a ciarlare, e io non ci capivo molto e continuavo a rispondere in romagnolo e Francesco continuava a ridere ed era tutto sospeso per aria, come il parto di una mente addormentata, cavato a forza con un cesareo dal ventre di una bambina che ha voluto giocare troppo, e no, quella sera si andò in bianco, perché forse si voleva andare in bianco, perché forse tutti stavamo solo giocando troppo, tutti volevamo solo giocare troppo, e continuò la gita il giorno dopo, con noi che correvamo su e giù per l’albergo e facevamo incavolare il prof che si prese le sgridate dal proprietario, e prendevamo in giro le due signorine che servivano i clienti chiedendo loro sporcherie varie in italiano, che tanto non comprendevano, e una sera lungo il fiume volevo stare da solo perché ero depresso, e i miei compagni non riuscivano ad entrarmi in testa, e rimanevo seduto sull’erba umida a pensare... e poi quella sera in diretta televisiva nazionale, tutti seduti su comode poltrone rosse numerate, nella platea di un talk show con ospite un celebre e celebrato regista francese, il cui film più famoso era un horror con bambole che ammazzano a caso della gente (e io posso assicurarvi che, dall'alto della mia cultura cinematografica, non ho mai sentito nominare quella pellicola), e Samuele seduto al mio fianco si annoiava, perchè tutti blateravano la lingua natia, e non si capiva una mazza di nulla; fotografi -tanti fotografi- passavano lungo le file di poltrone e scattavano foto a noi del pubblico (saremmo stati in tutto un duecento persone), e i trenta più fotografati della serata, come premio avrebbero recitato nel prossimo film di quel regista celebre e celebrato; tanto mi ripeteva, la mia solita mente pessimista, "non sceglieranno mai te, non sarai mai uno di quei trenta", e dovevate vedere la mia faccia quando invece, arrivato il momento di tirare le somme, mi misero in mano una serie di foto che mi ritraevano, e il presentatore dal palco, tra i tanti, annunciò il mio nome... estasiato, piangevo dall'emozione (peggio di un bimbo, o peggio di una napoletana a un funerale), e stavo per chiamare mia moglie in italia e dirle -salut salut putain at salut par sempar- quand'ecco la solita fregatura che arriva (e, nonostante sia una delle tante da aggiungere a un mucchio enormemente consistente, quando arriva brucia sempre, almeno un poco): solo le persone sedute nell'ultima fila, partendo dal palco in giù, vincevano la parte nel film, mentre quelle sedute in tutte le altre file (e io ero nella seconda, !gurglemà!), vincevano la partecipazione gratuita ad un corso per diventare sonnambuli (ahahahah), e io non riuscivo a capire perchè, con tutti i problemi che già avevo, avrei dovuto aggravare la situazione imparando a fare qualcosa da cui la gente di solito tende a voler guarire; e quindi detti forfait... quando alla fine, dopo tanto che ci stai a pensare e ripensare, dopo che una sola parola di più buttata a caso rischia di mandarti in pappa il cervello per due giorni interi, dopo che Francesco e Samuele sono finiti a dormire abbracciati sotto sei piedi di terra, dopo che quei maledetti non fanno altro che starsene seduti sulle loro comode poltrone a cavarsi la cacchina dall'ombellico e lanciarla sulla folla -ammassata ai loro piedi- che fagocita se stessa, e soprattutto dopo che io sto andando incontro a un rapido peggioramento e mi sembra che ogni cosa attorno a me si sfumi agl'angoli, arriva il tempo di risalire sul pulmino per rincasare, si marcia sempre un po' a capo chino, guardando basso, guardandosi i piedi, guardando se riesci a trovare il punto esatto in cui Samuele e Francesco stanno marcendo beati, e via ti metti a sedere dentro alla vettura, e già pensi ai dolori di schiena e ai nuovi lividi sulle braccia, e a quelli che farai, per sfogarti, alla persona che ti viene più vicino e ti dice di volerti più bene del cane, ma poi; basta, anche per quest'anno, ho dato.
Gianluigi Valgimigli
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